J. Edgar: recensione del film di Clint Eastwood con Leonardo DiCaprio
La recensione di J. Edgar, il film di Clint Eastwood che racconta di un uomo che ha visto succedersi 8 Presidenti.
La vita di J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI per oltre mezzo secolo, è caratterizzata da un lato dal suo operato pubblico e dall’altro dalla complessa e discussa vita privata. Circondato dalla fedele segretaria Helen Gandy (Naomi Watts) e consigliato dalla rigida madre Anne Marie, Hoover contribuisce a creare il mito dell’organizzazione investigativa federale americana, occupandosi in prima persona di riorganizzarne struttura e metodi e di condurre la lotta contro il mondo dei gangster. Mentre il suo potere cresce a dismisura, fino a intimorire anche i Presidenti americani, molte voci che insinuano dubbi sul rapporto col suo collaboratore Clyde Tolson (Armie Hammer). Racconta questo J. Edgar (2011), il film di Clint Eastwood che porta al cinema la storia di un uomo americano che ha vissuto attraverso il suo lavoro le tappe più importanti del suo paese.
J. Edgar: il racconto di un uomo che vede passare 8 Presidenti
John Edgar Hoover, interpretato da Leonardo DiCaprio, per l’educazione impartita dalla madre, ogni cosa deve passare sotto la sua supervisione; quell’uomo fin da piccolo timido e goffo, quando diventa capo dell’FBI grazie al Presidente Calvin Coolidge, decide di applicare lo stesso metodo alla Nazione. Il fragile e balbuziente Edgar è nella vita pubblica ossessionato dal controllo e apre una guerra aperta nei confronti di bolscevichi, radicali, gangster e delinquenti. Tutto cambia intorno a lui, vede passare 8 Presidenti (da Coleridge a Nixon); il suo sistema di lavoro si fa sempre più rigido, costruisce dossier che potrebbero incastrare mezza America e intanto lui tenta di nascondere al mondo la sua natura, partendo dalla madre che morirebbe se sapesse il suo orientamento sessuale. Mentre costruisce il suo ruolo pubblico di uomo autorevole e influente che lavora per il bene dello Stato non riesce a costruirsi una figura privata e questo perché non può/vuole vivere la sua identità alla luce del sole e soprattutto sotto lo sguardo della madre. Non si è mai sposato, non ha mai avuto una fidanzata, anzi, durante un’uscita assieme all’inseparabile Tolson in cui incontrano tre donne che lo lusingano chiedendogli di ballare, torna a casa dalla madre dicendole che non ama ballare con le donne.
Diventa questa una metafora del suo orientamento sessuale e il momento metafora di un sussurrato coming out che la madre finge di non sentire; anzi per fargli capire quale fosse la condotta da adottare riporta alla memoria un ricordo del passato: un bambino che amava vestirsi da donna veniva soprannominato gerbera e il dolore era stato talmente insopportabile che alla fine aveva deciso di suicidarsi. J. Edgar intende le parole materne e comprende che l’unica scelta possibile è nascondere ma non basta perché inizia a farsi strada l’idea che lui e Tolson siano una coppia, di nascosto, nell’ombra delle stanze.
Prima di tutto la carriera
Leonardo DiCaprio dà corpo ad un altro personaggio superbo, ad uno che è diventato icona del mito americano: Edgar indossa la maschera dell’uomo che sa prendere le distanze ma che dentro ha dolori, sofferenze, soffoca se stesso in nome di ciò che è “giusto”. DiCaprio mostra le sfumature del suo uomo: se sul lavoro è intransigente, severo, in famiglia, con la madre, con Tolson è dubbioso, delicato ma anche profondamente distante. Edgar mette davanti a tutto la sua carriera – è quello l’importante, ciò che davvero conta per lui -, deve conservare il ruolo, la forma per cui tanto ha lavorato. Eastwood, padre di un cinema classico, narratore rigoroso di storie e città “imperfette”, gioca con il tempo, percorrendolo avanti e indietro – molti i flashback -, è capace di aprire lo sguardo sulle strade colpite da spari, di raccontare il rapimento di un bambino, come aveva già fatto in Changeling, che diventa per Edgar strumento per raggiungere il successo.
Edgar infatti non è solo l’uomo serio ma è anche colui che usa il suo potere in maniera violenta e aggressiva, si nasconde, si barrica dietro il suo ruolo e in nome di questo giustifica qualunque scelta. Lui è, forse anche perché deve nascondersi, uomo che pedina, bara mettendo in scena, a volte, storie da grande teatro, e minaccia chi gli capita a tiro. Il corpo attoriale di DiCaprio che si dilata e si rende malleabile, che è capace di portare addosso le ambivalenze e le contraddizioni americane, rappresenta il paese sempre più spaventato, quello che si scontra con i suoi nemici usando le stesse armi e gli stessi metodi; così diventa il migliore interprete della Nazione, lavorando sulle figure care ad essa e Eastwood è bravissimo a mostrarcelo, un po’ alla volta, a tratti.
Di fronte a noi Edgar, Tolson e Gandy invecchiano – e si vede fin troppo il trucco che rende anziani DiCaprio, Hammer, Watts -, sono pallide immagini del passato e si fa chiaro come l’esistenza ruoti intorno al celato, al nascosto e agli avvenimenti da celare a da nascondere.
J. Edgar: un biopic che narra anche il contemporaneo
Eastwood scrive un biopic che mostra anche il contemporaneo come solo lui sa fare. Entra nelle stanze del “potere” sollevando il velo del detto/non detto, del nascosto/esibito, ma soprattutto in quelle private e con sensibilità tesse le trame di una relazione che nasce, si costruisce e matura. Il cineasta con lentezza, forse in qualche caso anche eccessiva, cammina tra gli anni di un’America che è stata capace di cadere e di risollevarsi, di sorvegliare e punire, di perdere la propria innocenza (di questo si fa metafora il rapimento del bambino) e farsi millantatrice di una purezza che non esiste e non possiede. Costruisce la maturazione di un uomo politico anche attraverso i silenzi e le insicurezze della sua intimità e grazie a ciò è capace di narrare la grande Storia.