Q Ball: recensione del documentario Netflix
A San Quentin, fra le mura del carcere di massima sicurezza più conosciuto al mondo, il basket unisce i detenuti in cerca di riscatto, riabilitazione e di una seconda opportunità.
Se diciamo prigione di San Quentin, cosa ci viene in mente? Un istituto penale di detenzione, ovviamente, un luogo in cui sono reclusi individui resi privi della libertà personale in quanto riconosciuti colpevoli di gravi reati. Ma San Quintino, California, è – assieme probabilmente ad Alcatraz – anche qualcosa di più, come ci dice il tenente Samuel Robinson all’inizio di Q Ball: è il luogo in cui sono alloggiati tutti i prigionieri del braccio della morte dello Stato, che incute terrore sin dal 1852 e in cui il totale dei carcerati sfiora le 4 mila e 500 unità.
Potremmo restare stupiti, quindi, di fronte ad un incipit così idillico: si gioca a scacchi e si dialoga nel cortile, sullo sfondo di una normalissima partita a basket; poi, un pestaggio in lontananza spezza l’armonia, costringendo tutti al rientro forzato. In questa sequenza è racchiusa la doppia anima di un documentario che vuole essere un atto di presa di coscienza e denuncia, perché in America meno dell’1% dei costi di detenzione va verso qualsiasi tipo di riabilitazione. La sfida è proprio questa: che la pena sia di 5 o di 30 anni, è necessario preparare le persone alla nuova futura libertà. Perché “chi viene in prigione può anche riprendersi la propria umanità”.
Q Ball: “Se distruggi una persona, questa cambierà”
Suddiviso in tre capitoli (Giocare a basket al Q; Se commetti un crimine, poi devi pagare; Riprendersi la propria umanità), il film di Michael Tolajian sconfessa l’idea obsoleta della tortura legalmente consentita (secondo i dettami di un cambiamento dell’essere umano tramite annichilimento) e ci spiega come la nuova via sia l’opportunità di educarsi, acquisire competenze e capire dove si ha sbagliato. Il mezzo, nello specifico, sono le attività sportive: basket, baseball, squash, tennis. Ci si sofferma in particolar modo sulla pallacanestro, ponte fra persone e mezzo di inclusione per ragazzi spesso ben lontani dalla maturazione.
A San Quintino c’è una vera e propria formazione ufficiale, i San Quentin Warriors, che ogni anno ha la fortuna di sfidare i Golden State Warriors (o, perlomeno, una agguerrita selezione dei loro preparatori atletici e allenatori). Un trampolino per distogliere la mente dal fatto di essere in carcere, ma anche per sperare di essere notati dai talent scout dell’NBA. Come il talentuosissimo Harry “il fenomeno” Smith, che sconta una pena di 7 anni per violenza e che spera, a 31 anni, di poter essere il primo detenuto a giocare nel basket professionistico. Un sogno impossibile, probabilmente, ma la speranza vale oro in prigione.
Q Ball – Mai giudicare un libro dalla copertina
Buona parte di Q Ball è dedicata, oltre alla presa diretta di ciò che accade fra le quattro mura del carcere, alle interviste. Frammenti che rivelano lotte personali e passati criminali (possesso di armi da fuoco, omicidio, violenza domestica, spaccio), portando all’emersione di un poderoso mix di energia repressa, frustrazione rabbiosa e spavento. Non bisogna “mai giudicare un libro dalla copertina”, come dice uno degli interpellati: esistono persone cattive che vogliono fare cose cattive e persone che vogliono ripulirsi. Il film dà anche l’opportunità ai familiari della vittime di esprimere il loro dolore, e di chiedersi perché mai l’assassino della persona amata dovrebbe essere rilasciato e avere l’opportunità di iniziare una nuova vita.
Ci si potrebbe tuttavia interrogare sulla genuinità di questo resoconto, sempre positivo e propositivo, a volte anche in modo forzato. Q Ball ad esempio non offre alcun accesso ai non “atleti” (pegno necessario da pagare, visto che la pellicola è prodotta da Fox Sports e dal cestista Kevin Durant), e i rapporti dei giocatori con gli altri detenuti di conseguenza non sono chiari (i palesi privilegi della squadra suscitano invidia oltre che orgoglio?). La scelta di campo adottata, in sintesi, lascia aperti ampi squarci che rendono il risultato finale a tratti ambiguo: un prodotto di alta qualità formale, ma con delle innegabili e irrisolte zone d’ombra.