Il calamaro e la balena: recensione del film di Noah Baumbach
Candidato all'Oscar per la migliore sceneggiatura originale, Il calamaro e la balena mette in scena i danni dell'egocentrismo in una benestante famiglia di Brooklyn.
Una classica famiglia disfunzionale, in cui due genitori egocentrici mettono costantemente in secondo piano le emozioni dei figli, in un caso sminuendole, nell’altro manipolandole, in nome di un diritto all’auto realizzazione completamente avulso dalla realtà familiare da loro stessi scelta e creata. Con Il calamaro e la balena, il regista Noah Baumbach (The Meyerowitz Stories, Storia di un matrimonio) mette in scena la sua personale esperienza adolescenziale, scegliendo toni cinici ma profondamente autentici per descrivere il dramma vissuto dai figli in quelle separazioni in cui la prole diviene improvvisamente una zavorra, finendo in balia dei malumori e degli irrisolti degli ex coniugi, che appaiono emotivamente meno equipaggiati dei bambini che dovrebbero proteggere.
Ecco allora che i capricci di questi due adulti esperti di forma ma carenti nella sostanza finiscono per investire come uno tsunami la vita dei loro figli, che fra confusione e istinto di schierarsi e contrapporsi rispettivamente con l’uno e l’altro genitore, cercano di aggrapparsi a un possibile punto di riferimento, tentando di decifrare la situazione surreale in cui si trovano invischiati.
Ne Il calamaro e la balena, Bernard (un eccezionale Jeff Daniels) è un professore di scrittura creativa, un tempo romanziere di successo. Il suo ego straripante è ora oscurato dal talento della moglie Joan (Laura Linney), in procinto di pubblicare la sua opera prima sul New York Times. Tale subdola competizione è la goccia che fra traboccare il vaso del malessere di coppia, cresciuto un circolo vizioso di tradimenti e pressioni emotive, con questa apparentemente perfetta famiglia di Brooklyn che si trova a rivelare improvvisamente la debolezza estrema della proprie fondamenta.
In tutto ciò si trovano coinvolti i figli Walt (il già dotato Jesse Eisenberg) e Frank (Owen Kline), ognuno in una fase delicata dello sviluppo (l’adolescenza il primo e la pubertà l’altro), per la prima volta alle prese con la scoperta della vera natura dei propri genitori, due figure che appaiono progressivamente inadeguate a sostenere se stessi, prima ancora dei figli.
Il calamaro e la balena: una famiglia incapace di empatia
Bernard e Joan sono “due galli nello stesso pollaio”: il primo, narcisista impegnato a proiettare un’immagine impeccabile di sé, anche mettendo in cattiva la luce la moglie agli occhi dei ragazzi, con i suoi modi passivo-aggressivi ha sempre tenuto in scacco la famiglia, portando soprattutto il figlio maggiore a dipendere dal suo giudizio impedendogli di agire e sbagliare seguendo il proprio istinto. Un prezzo pagato ancora prima da Joan, una donna fragile ma un tempo emotivamente più disponibile, che non ha trovato una via diversa dai tradimenti ripetuti per liberarsi dalla morsa del marito, sotto la cui influenza non sarebbe mai riuscita ad emergere professionalmente.
Il figlio più piccolo, Frank, cerca di affrontare l’inadeguatezza dei propri genitori attraverso un’ipersessualizzazione, difendendosi dal dolore provato atteggiandosi precocemente a uomo, mettendo in questo modo in evidenza la grave assenza di figure di accudimento solide, che egli stesso cerca in questo modo di compensare.
Il calamaro e la balena, dotato di una struttura quasi teatrale, dalla sceneggiatura incalzante e ricca di piani semantici, mette in scena così un dramma privo di morale o redenzione, in cui il titolo si rivela emblema della necessità di trovare da sé quelle risposte e rassicurazioni che spesso la famiglia non è (più) in grado di offrire. Svicolandosi dalla dipendenza e trovando il coraggio necessario per affrontare i propri mostri faccia a faccia, riuscendo così a sconfiggere la paura e l’incertezza. O – più realisticamente – imparando a conviverci.