Identità: la spiegazione del finale del film di James Mangold
Identità: la trama, i significati nascosti, la spiegazione del finale e l'analisi del brillante thriller diretto da James Mangold.
Come un mosaico il cui schema è chiaro e ben visibile solo da una certa distanza, Identità gioca con lo spettatore disseminando ambigui indizi che germogliano lungo tutto il percorso narrativo, presagio della sconcertante agnizione finale. Eppure, nonostante i colpi di scena, le inaspettate rivelazioni e il plot twist, il significato profondo dell’opera è in bella mostra, sedimentato nell’inconscio, in attesa di essere disvelato dalla consapevolezza. Ma cosa racconta davvero Identità?
Identità è uno di quei lungometraggi impossibili da guardare con disattenzione. Le diverse linee temporali della narrazione, le apparenti incongruenze, le intricate vicende dei singoli personaggi richiedono uno sforzo di concentrazione e memoria senza il quale diventa davvero difficile seguire il racconto.
Nella prima scena del film lo psichiatra Malik ascolta la registrazione delle sedute avute con il suo paziente Malcolm Rivers, uomo colpevole di aver brutalmente assassinato sei persone e condannato alla pena di morte. Solo ventiquattro ore separano il galeotto dall’esecuzione ma il suo avvocato e il dottore, convinti di potersi appellare all’infermità mentale, riescono ad ottenere una riunione straordinaria con il giudice. Dopo questo scorcio sul presente lo spettatore viene presumibilmente portato alla scoperta di quei terribili crimini di cui si è macchiato in passato Rivers.
Identità: una storia nella storia
È una notte buia e tempestosa e, per una serie di circostanze basate sul classico schema causa – effetto, dieci estranei si ritrovano bloccati in uno squallido e isolato motel di hitchcockiana memoria. Spalanca la porta dell’albergo un uomo in compagnia di un bambino spaventato e con la moglie moribonda tra le braccia. Subito un flashback mostra la donna, intenta a giocare con il figlio, investita da un’auto guidata da Edward Dakota, ex agente di polizia ora autista di limousine al servizio di Caroline Susan, scontrosa e viziata attrice televisiva presente in macchina ma tutt’altro che disponibile ad aiutare la sventurata in fin di vita.
Abbandonata la vettura, il responsabile dell’incidente tenta inutilmente di utilizzare il telefono del motel per chiamare soccorsi, quindi decide di provare a raggiungere l’ospedale più vicino. Tuttavia, a causa del nubifragio, le strade sono inagibili e Dakota torna in albergo assieme ad una donna, incontrata lungo il percorso e con la macchina in panne, e una coppia di neo sposi che ha accolto nella propria auto i due sconosciuti in difficoltà. Al gruppo già in hotel si aggiunge poi anche un poliziotto con un detenuto e ad ognuno viene data una stanza per poter riposare, in attesa che le condizioni climatiche migliorino. Ben presto un misterioso serial killer comincia ad uccidere gli ospiti del motel lasciando sul corpo delle vittime la chiave della camera, come in un conto alla rovescia ineluttabile, aumentando così l’angoscia dei protagonisti che iniziano a sospettare l’uno dell’altro.
Identità: la spiegazione del finale
Vengono quindi assassinati: l’attrice, il neo sposo, il detenuto, il direttore dell’albergo e il marito della donna vittima dell’incidente. Progressivamente, soprattutto quando spariscono misteriosamente i cadaveri degli ospiti, nello spettatore si insinuano dubbi e incertezze sulla fondatezza delle vicende seguite fino a quel momento. Mentre proseguono le morti, la narrazione torna al presente e scopriamo che effettivamente tutto ciò che è accaduto nel motel è frutto dell’immaginazione di Malcolm Rivers.
L’uomo infatti, a causa di traumi infantili, ha sviluppato un disturbo dissociativo della personalità che ha di conseguenza frammentato l’io in più identità che corrispondono ai personaggi della storia. Il condannato non è quindi consapevole della propria condizione e degli omicidi da lui commessi nella vita reale in quanto (questo il fulcro della strategia difensiva del suo avvocato) è stato uno degli individui presenti nella sua mente a compierli. Mentre lo psichiatra illustra nello specifico lo stato del paziente, prosegue il racconto di Malcolm che, individuando il serial killer del motel scopre anche quale tra le singole persone in lui è quella violenta e quindi responsabile degli orribili crimini. Costui è il poliziotto, rivelatosi poi un galeotto in fuga, ed è proprio Rivers, nei panni dell’autista Edward, ad eliminare il finto agente mettendo fine alla scia di sangue e salvando così la prostituta Paris, unica scampata al massacro.
Eliminata in questo modo l’identità responsabile anche nella vita reale degli omicidi, il colpevole di fatto è stato punito e l’uomo, libero da quell’io malvagio, non costituisce più un pericolo. Il giudice, sconcertato dal vedere Malcolm cambiare timbro di voce, modo di parlare e persino grafia, a seconda delle personalità, revoca la pena capitale e riconosce l’infermità mentale.
Rivers quindi è in viaggio verso l’ospedale psichiatrico che lo ospiterà per il resto dei suoi giorni e, diventato Paris, unica sopravvissuta alla strage, immagina di trovarsi in uno splendido agrumeto. Tuttavia un nuovo colpo di scena (M. Night Shyamalan docet) chiude il lungometraggio: la personalità malvagia non era il finto poliziotto ma il bambino che ha ucciso tutti i protagonisti della storia. L’io violento non è stato quindi annientato e, assassinata la prostituta, il crudele ragazzino (alias Revers) uccide lo psichiatra e l’autista della vettura.
L’analisi dell’opera: l’impianto narrativo
Uno degli obiettivi principali dei thriller è quello di stupire e intrattenere il pubblico trascinandolo in un vortice di emozioni ad alta tensione. Identità senza dubbio riesce nel suo intento dando la sensazione allo spettatore di essere travolto da una serie di eventi ineluttabili e dall’oscuro significato. Lo scheletro della pellicola, direttamente ispirata all’opera di Agatha Christie Dieci piccoli indiani, non è di difficile comprensione ma allo stesso tempo spinge il fortunato osservatore a compiere, assieme al protagonista, un percorso di consapevolezza.
La riuscita del lungometraggio è il frutto di una sapiente costruzione del racconto operata dal regista James Mangold. L’artista statunitense ha trasposto magistralmente L’enigma della camera chiusa, particolare varietà di romanzo in cui l’investigazione si svolge attorno ad un crimine compiuto in circostanze apparentemente impossibili. Se Edgar Allan Poe è da considerare il capostipite del sottogenere, questa modalità espressiva è molto presente anche nelle narrazioni di Agatha Christie.
Identità: i significati nascosti del film
Secondo lo schema ben collaudato del giallo, gli indizi vengono sparsi lungo tutta la pellicola ma lo spettatore solo al termine di quest’ultima ha una visione nitida e completa dell’opera. Il titolo stesso del film rappresenta la risoluzione dell’enigma: l’identità altro non è che l’io frammentato di Malcolm, inconsapevole dei propri crimini. La frase stessa pronunciata ossessivamente dal condannato a morte:
Salendo le scale ieri sera ho incontrato un uomo che non c’era…nemmeno oggi lui è qua. Spero tanto che se ne andrà.
indica la presenza invisibile, ma non per questo inesistente, di qualcosa, o meglio qualcuno nell’ombra. Lo spettatore attento avrà poi notato gli stralci di giornale all’inizio del film in cui viene reso noto il trauma infantile di Rivers che da bambino ha subito maltrattamenti e abusi e successivamente si è macchiato di efferati omicidi.
Particolare rilevanza ha poi il libro dell’autista Edward L’essere è il nulla di Sartre, opera in cui il filosofo afferma che l’immaginazione è l’unico luogo in cui l’uomo è libero dalle catene, dai vincoli. Non è casuale che il testo appartenga ad Edward, l’io razionale che prova in tutti i modi ad annientare il misterioso serial killer e in una scena lo vediamo intento a prendere delle medicine, presumibilmente dei farmaci per tenere a bada il suo disturbo psichico.
Seppur obbedendo ad una struttura fissa, anche gli altri personaggi rappresentano Malcolm e il suo passato. Chiaramente Paris, colei che nel bene e nel male catalizza le attenzioni di tutti, è la madre di Rivers (non a caso nella vita reale la donna era una prostituta), il bambino è strettamente legato ai maltrattamenti infantili del condannato a morte e la scena del finto poliziotto che chiude in bagno il galeotto rievoca un’esperienza analoga vissuta in tenerà età dal paziente.
L’uomo che gestisce il motel, profondamente ostile alla squillo, sicuramente è un’eco della violenza del padre. Altri elementi invece sono necessari al progredire del racconto come il countdown con le chiavi del motel o la superstizione della neo sposa, convinta che i responsabili degli omicidi siano un gruppo di indiani precedentemente morti proprio nei pressi dell’albergo. Quest’ultimo aspetto orienta temporaneamente il pubblico verso una spiegazione soprannaturale. Un espediente brillante che d’altra parte rappresenta un tema ricorrente nella letteratura americana (senso di colpa?) e infatti è molto amato anche da Stephen King. La sceneggiatura, essenziale ma non banale, aumenta l’angoscia e la fotografia, fangosa e soffocante, conferisce a tutta la narrazione un’atmosfera di inquietudine e ansia. Infine è impossibile guardare il motel e non pensare a Psycho, film in cui, tra l’altro, definire controverso il rapporto tra il protagonista e la madre è un eufemismo. Il cerchio si chiude.