Biografilm 2020 – Termite: recensione del film di Masoud Hatami
Andare alla scoperta della vera natura del cinema indagando il cuore concettuale intorno al quale ruota un film, dove realtà e finzione si incontrano.
Per uno dei film più particolari dell’edizione 2020 del Biografilm Festival, appena conclusa, peschiamo nella sezione Contemporary Lives, dove troviamo un interessantissimo instant/road movie concettuale girato in 5 giorni, frutto delle menti del regista Masoud Hatami e del direttore della fotografia Moahamad Hadadi.
Il titolo internazionale è Termite, nella lingua originale Mouriyaneh, ovvero “Tarlo”. Quello del dubbio se vogliamo, che comincia a rosicchiare nella testa dello spettatore sin dalla prima scena e che si fa strada con lo scorrere dei minuti, nel corso dei quali finzione e realtà cominciano a sovrapporsi, ad accavallarsi e a dialogare sempre più assiduamente, fino a fondersi del tutto.
Novelli sposi al centro del film di Masoud Hatami
Tara e Peyman sono una giovane coppia appena sposata. Facciamo la loro conoscenza durante un viaggio in macchina in pieno inverno, provenienti da Teheran e diretti in un paesino in prossimità del Mar Caspio per la vendita di una vecchia proprietà dove la ragazza ha passato la sua infanzia.
Un tragitto giocato al confine tra il reale e l’onirico, durante il quale sorgono presto diverse difficoltà, pratiche e non, che faranno tornare a galla traumi passati, paure e insicurezze e faranno sorgere dubbi sul futuro e incomprensioni reciproche malcelate o ancora non affrontante. Un bagaglio di emozioni che porteranno inevitabilmente i due protagonisti e il regista stesso ad interrogarsi su se stessi e sulla la loro idea della vita, cambiandola per sempre.
Termite: non tutto quello che inizia come un film deve finire come tale
Scopo del cinema è quello di adoperare la finzione per raccontare la realtà, o meglio, una realtà, ma la sua forza diventa a volte talmente intrusiva da finire per soppiantarla. Motivo per cui spesso nella ricezione di un film assistiamo ad un ribaltamento in cui si finisce per adattare la realtà al suo racconto invece del contrario. Termite si sofferma proprio su questo punto, indicandolo come il cuore stesso del cinema, a suo modo di vedere il meccanismo al centro del suo potere catartico. Da qui inizia a scavare, assecondando la potenza della finzione fino ad arrivare ad usarla come strumento per scoprire una realtà nuova.
La mente di Tara (o Maryam), la sposa di Peyman che ricorda un po’ la Clementine della Winslet in Eternal Sunshine of a Spotless Mind, indugia fin dall’inizio sull’idea di morte, non come aspirazione o desiderio, ma come concetto di fine e dunque metafora di una forte insicurezza riguardo le proprie idee su come condurre la sua stessa vita.
Su questa rotta prosegue il viaggio dei due protagonisti, sempre accompagnato da intermezzi onirici in cui si assiste alle visioni di una famiglia pronta ad accogliere un nuovo nato, passando in rassegna diversi temi esistenziali fino ad infrangersi su quello delle genitorialità. Un terreno di scontro molto acceso. Qui la finzione prende il sopravvento, ma solo per smascherare la realtà, per rivelare quella nascosta dai mille discorsi e le mille distrazioni della quotidianità. Avviato questo processo, la sua intensità diventa inarrestabile, coinvolgendo anche la troupe, in primis il regista, il quale, nonostante veda sfuggire sempre più dal suo controllo gli attori, continua ad andare avanti, preda di una smania capace di trasformare le rive del Mar Caspio in una sorta di Terra Promessa, luogo dove poter ottenere una qualche sorta di rivelazione riguardo l’essenza stessa del cinema.
Termite è un esperimento che esige dei sacrifici in termini di fruizione in nome della sua riuscita. A tratti diventa cervellotico, sfuggente, in alcuni passaggi inconcludente o fine a se stesso, come è a volte la vita o i ragionamenti su noi stessi che facciamo voce alta. La sua unica coordinata rimane il momento di pathos più alto, un punto di riferimento in mezzo ai paesaggi innevati che sembrano ripetersi all’infinito.
Per un film che ha l’ambizione di non finire come tale il destino è quello di sovvertire le regole stesse della fruizione cinematografica. Un orizzonte più che una meta, almeno per questo tentativo, che si ferma alla manipolazione concettuale dell’idea di finzione in rapporto alla realtà, ma che nel momento in cui dovrebbe definitivamente rinunciare al controllo rimane ingabbiato in regole nuove.