The Sentinel – Il traditore al tuo fianco: recensione del film
L'agente dei servizi segreti americani Pete Garrison lavora da oltre vent'anni alla Casa Bianca, proteggendo presidenti e first ladies. Il suo universo lavorativo entra però in crisi a causa di alcuni inquietanti segreti...
Col binomio complotti – Casa Bianca il cinema d’azione statunitense va sempre, o quasi, sul sicuro. È una formula collaudatissima, che funziona proprio perché racconta più o meno sempre la stessa storia. The Sentinel – Il traditore al tuo fianco non è da meno, nonostante cerchi di trovare una propria originalità offrendo allo spettatore un punto di vista anomalo: non quello del Presidente braccato e neanche quello di un integerrimo braccio destro, ma quello di un collaboratore stretto che in qualche modo sta tradendo la fiducia del primo cittadino americano.
Tratto dal romanzo La sentinella dell’ex agente segreto Gerald Petievich – già portato al cinema nel 1985 da William Friedkin con Vivere e morire a Los Angeles e nel 1993 da James Harris con Limite estremo, in entrambi i casi con scarso successo – il film di Clark Johnson vive la politica come un mero pretesto drammaturgico, e questo “trucco” finisce spesso per rendere l’intreccio debole e indeciso, mai del tutto convinto sulla strada da intraprendere e su come farlo.
The Sentinel – Il traditore al tuo fianco:
una talpa alla Casa Bianca
È soprattutto nella prima parte che The Sentinel mostra le sue armi migliori, descrivendo la cospirazione per assassinare il Presidente Ballentine orchestrata da un agente corrotto che agisce da traditore all’interno del servizio. La talpa doppiogiochista incastra anche il nostro protagonista, ovvero il veterano responsabile della sicurezza personale della First Lady Pete Garrison. Nel momento in cui tutte le accuse ricadono su di lui, scatta il “secondo tempo” della pellicola, troppo romanzato e per nulla credibile.
È a questo punto che The Sentinel rientra nel percorso prestabilito del film “da fuga” in stile Il fuggitivo, sacrificando lo spunto del cattivo di turno che non è un terrorista appartenente ad un gruppo di estremisti (leitmotiv dello spy cinema dall’11 settembre in poi) ma vive all’interno della stessa istituzione organizzativa. Un’idea non rivoluzionaria, sia chiaro, ma sufficiente perlomeno a non cadere nella risaputa sequela di inseguimenti e rocambolesche fughe che permettono al fuggiasco di sopravvivere e, al contempo, risolvere il caso ristabilendo la giustizia.
Dalla pagina allo schermo: missione (non) compiuta
Il problema sembra risiedere, essenzialmente, nella scrittura di George Nolfi (Ocean’s Twelve, I guardiani del destino), sia nella connessioni fra le varie parti del racconto che nel tratteggio dei personaggi. Al di là del Garrison interpretato con impegno da Michael Douglas, gli altri comprimari sono figurine sullo sfondo: sia alla moglie del Presidente Kim Basinger che alla giovane agente Eva Longoria sono concesse poche battute, e in particolar modo quest’ultima rimane vittima di uno script maschilista bolso e vecchio di oltre vent’anni.
Non va molto meglio al capo dello Stato americano, talmente superfluo da risultare in tutto e per tutto sacrificabile. Ma è difficile, d’altro canto, immaginare cosa si potrebbe aspettare di diverso da un film di questo tipo, che pur di dimostrarsi all’altezza getta nella mischia con nonchalance KGB, Guerra Fredda e G8 ingolfandosi nel finale. Forse un po’ più di coraggio, forse una maggiore lucidità espositiva. O magari una radicale – e impossibile – presa di coscienza: perché certe storie sono destinate a dare il meglio di loro stesse sulla pagina di un romanzo, e non sullo schermo di un cinema.