Pride: recensione
L’incontro di due mondi all’apparenza opposti e inconciliabili è un fenomeno che affascina il mondo del cinema (e non) da sempre. Nel caso di Pride, commedia drammatica diretta da Matthew Warchus, vincitrice della Queer Palm al Festival di Cannes, il tema è ulteriormente sviluppato in direzioni inedite ed intelligenti, che stimolano lo spettatore ad interrogarsi sul concetto di “diversità” in senso lato e sulla genesi e significato dei tanto temuti pregiudizi.
Le vicende narrate sono ispirate a fatti realmente accaduti in Gran Bretagna, nei primi anni ’80, quando la cultura omofoba, legittimata nel passato da una legge sul reato di sodomia ormai abolita, ma ancora viva nella mentalità perbenista popolare e all’interno delle istituzioni, rendeva la vita di gay e lesbiche costellata di insulti ed abusi di potere. Una condizione di frustrazione non tanto diversa da quella vissuta nello stesso periodo dai tanti minatori in sciopero contro il governo Tatcher per difendere il loro diritto a lavorare sottoterra, un lavoro in gran parte disumano e altamente rischioso, ma profondamente radicato nell’identità e nella dignità dei tanti paesi che basavano la propria economia ed il senso del loro esistere sull’estrazione del carbone.
Pride nasce dall’ inaspettato punto di incontro fra questi due gruppi sociali, stimolato dall’idealismo e dall’ingegno del giovane Mark Ashton (Ben Schnetzer), attivista gay in continuo fermento per cambiare il mondo che, intuendo nelle vessazioni subite un possibile punto di incontro, partorisce la stravagante idea di organizzare una raccolta fondi e una serie di manifestazioni ed eventi pubblici a sostegno dei minatori in sciopero, dando inizio ad uno stravolgimento storico senza precedenti che, tra resistenze, ostacoli, vittorie e fallimenti porterà ad uno dei più grandiosi esempi di solidarietà mai visti al mondo: la partecipazione in massa dei minatori Britannici al Pride di Londra del 1985.
Una storia all’apparenza semplice ma ricca di significati impliciti e profondi, generati innanzitutto dal paradosso di partenza: lo stereotipo iper virile del minatore a confronto con la sessualità non convenzionale degli omosessuali e le ovvie resistenze nell’approfondire la conoscenza reciproca, chiave di volta scontata ma mai sufficientemente messa in pratica per abbattere i muri universali del pregiudizio.
Da lì in poi la strada non può che essere in discesa e portare anche gli scettici più incalliti a ridimensionare le proprie opinioni di seconda mano grazie alla magia della comprensione che nasce solo dall’esperienza diretta del mondo e delle persone.
Si scopre così che la diffidenza degli eterosessuali deriva in gran parte da una curiosità non soddisfatta e che la gente si interroga sulla diversità dei gay riguardo ad aspetti inaspettati e non necessariamente sessuali (“come faranno ad entrare in una tuta di latex?” o “Ma è vero che le lesbiche sono tutte vegetariane?”). Ecco nascere la consapevolezza che non vale la pena fidarsi dell’opinione pubblica deviata politicamente dalla stampa, che fa apparire i gay quanto i minatori sotto una luce negativa e distante dalla realtà. Questo perché, da quando esiste il mondo, qualunque minoranza che lotta per affermare i propri diritti vive l’emarginazione riservata a chi viene visto come un pericolo per l’ordine sociale esistente.
Pride riesce a raccogliere tutti questi spunti in un film ironico e brillante, sostenuto da una colonna sonora perfettamente assortita per tuffarsi negli anni ’80 insieme ai protagonisti e sfruttata sapientemente dal regista per sostenere, con il ritmo irresistibile dei Bronski Beat o dei Frankie Goes to Hollywood, scene che fungono da indispensabile legame tra un momento del film ed il successivo, ma che sarebbero risultate noiose se presentate attraverso dialoghi.
La fotografia, empatica e suggestiva, guida lo spettatore attraverso le emozioni provate dai protagonisti permettendo di identificarsi pienamente con gli stati d’animo e le intenzioni ed arricchendo una regia già al di sopra delle aspettative, per un film indipendente e a budget ridotto. Da segnalare, poi, l’interpretazione di un eccellente Andrew Scott che, se pur in un ruolo minore, offre la sua espressività al servizio della comprensione dei più sottili passaggi emozionali del film.
Unica pecca una sceneggiatura che, per quanto ritmica e divertente, avrebbe potuto svilupparsi ancora meglio, offrendo più occasioni per stemperare l’attenzione allo svolgimento di una trama necessariamente non troppo articolata (dovendo rispettare un evento storico) con qualche risata in più, che il tema avrebbe facilmente permesso.
Nonostante questo, Pride resta un film vincente, che dimostra come la ricchezza di idee brillanti e capacità può compensare i limiti di una piccola produzione. Una nomination al Golden Globe come miglior film commedia/musicale che si spera davvero diventi un altro premio.