El Chicano: recensione del film di Ben Hernandez Bray
Il detective della polizia di Los Angeles Diego Hernandez viene a conoscenza di un collegamento tra gli omicidi di una pericolosa gang messicana e la morte del fratello Pedro, che aveva pianificato di far risorgere l'identità di un vigilante mascherato chiamato El Chicano...
C’è chi dice di averlo visto materializzarsi nell’ombra, come un fantasma. C’è chi dice che non possa essere ucciso, e che faccia a pezzi i criminali con spietata ferocia. È l’uomo nero, o forse è un giustiziere dalla parte del popolo: El Chicano – esordio alla regia dello stuntman Ben Hernandez Bray, distribuito in Italia da Cloud 9 Film – cerca di sviluppare e creare dal nulla la leggenda di un nuovo e diverso supereroe, legato al folklore tradizionale messicano e al sottobosco delle gang, dei ghetti e dei capi del cartello della droga.
Una sorta di versione alternativa al Marvel Cinematic Universe, come accade già da un po’ a svariate latitudini; pensiamo a Lo chiamavano Jeeg Robot, all’indonesiano Gundala, o persino al russo Guardians – Il risveglio dei guardiani. Al respiro fantasy-fantastico, tuttavia, El Chicano sostituisce un tono severo (e un po’ machista) da poliziesco di stampo classico, più votato alla leggenda metropolitana che al volo pindarico da fumetto. Un ardito incrocio tra il misticismo di Il corvo e l’umanesimo dell’ultimo Batman, non a caso citato più volte nel corso della pellicola.
El Chicano: Il giustiziere del ghetto
Siamo a Los Angeles, e il fulcro della storia ruota tutto attorno al protagonista Diego Hernandez. Un carattere apparentemente granitico, ma in verità internamente scisso nel vertiginoso meltin’ pot culturale latino: la sua identità ufficiale è quella di poliziotto, pronto a sgominare bande di criminali nel nome della legge; ma le ferite ancora aperte relative alla presunta morte per suicidio del fratello gemello Pedro lo porteranno ad una analisi di se stesso e della sua vera natura, verso quell’enigmatico vigilantes che ristabilisce sì l’ordine ma seguendo un proprio violento codice personale.
È una delle carte vincenti di El Chicano, film che non segue il comfort e i cliché degli estremi ideologici ma che esplora invece i pericoli dell’ambiguità morale: viene introdotta infatti l’idea del recupero messicano della California e del sud-ovest, dopo 170 di oppressione. Un concetto affascinante e provocatorio, in un momento in cui gli Stati Uniti sono diventati un luogo sempre più inospitale, che costringe Diego a contemplare cosa significhi per lui essere sia messicano che americano, ad abbracciare sia il lato oscuro che quello chiaro della sua personalità, e a sopravvivere all’interno di quell’area grigia.
Combattere per il barrio
“Nel barrio, come il cielo diventa buio accadono cose brutte”: non si tratta solo di trovare un posto all’interno della propria famiglia biologica, ma anche di comprendere come si è visti all’interno di una comunità culturale più ampia. Una comunità che ha bisogno di collocarsi nel mondo, e che spesso però è incapace di conoscere il proprio nemico a causa dell’odio e della sfiducia. El Chicano diventa così anche una storia di redenzione, sicuramente non raffinata e poco approfondita rispetto alle aspettative iniziali ma non per questo meno efficace, grazie ad una credibile e verosimile immersione nell’east losangelino.
Si intravede la volontà di gettare le basi per l’ideazione di un personaggio iconico e replicabile, di un franchise potenzialmente valido per una saga cinematografica e/o per una serie televisiva. Per quanto le evidenti limitazioni di budget e le lacune della sceneggiatura rendano qua e là meno interessante la vicenda e l’estetica dell’intreccio, non si può negare che il risultato finale sia accattivante e potenzialmente espandibile. Sarà interessante vedere se il desiderio del pubblico messicano e latino di vedersi rappresentato sullo schermo sarà sufficiente a spingere El Chicano verso nuovi sviluppi, raggiungendo l’impatto culturale a cui aspira.