Venezia 77 – Bad Roads: recensione del film di Natalya Vorozhbit
La recensione di Bad Roads (Pohani Dorogy) di Natalya Vorozhbit, che partecipa alla Settimana della Critica durante Venezia 77.
Una strada in mezzo al nulla. Una macchina viene fermata da due uomini in divisa. Un uomo che ha bevuto troppo senza il passaporto. Sembra una situazione semplice, un caso risolvibile, invece no. Nulla è semplice a Donbass. Questo è l’incipit del primo racconto (quattro in totale) di Bad Roads (Pohani Dorogy), opera prima di Natalya Vorozhbit, sceneggiatrice ucraina, che porta al cinema, riadattandolo, il suo testo teatrale, che partecipa a Venezia 77 nella sezione Settimana della Critica. La regista ha inserito nel suo film storie reali – raccontate da persone che lei conosceva, che avevano vissuto la prigionia – da lei reinterpretate e riscritte, aprendo le stanze di quella sua pièce da teatro da camera.
Bad Roads: una piccola parte di mondo in cui non c’è salvezza
Sembra quasi uno scherzo, un brutto incubo, eppure è la dura e inquietante verità: tutto può accadere; il preside di una scuola diventa di fronte ai due militari un aspirante terrorista, gli occhi lame affilate, le parole diventano proiettili, il corpo un muro di gomma. Basta poco e la violenza esplode come una bomba, basta poco e si perde di umanità. Lui chiede pietà, chiede rispetto, chiede di essere creduto – è solo un preside – ma di fronte a lui ha due uomini in divisa che trovando un kalashnikov nel bagagliaio (i ragazzi si preparano alla guerra) lo umiliano e lo spaventano. Uomo contro uomo. Paura contro una legge disumana – quella del più forte. Pietà contro disumanità. La regista mostra una piccola parte di mondo, in cui non c’è salvezza, non c’è pace, non c’è via di scampo; lo spettatore teme, si sente parte integrante di quello scontro e non capisce chi dice la verità, chi una bugia e questo perché in guerra non c’è una netta divisione tra buoni e cattivi.
Vorozhbit mostra la follia, la violenza, il terrore e l’odio in cui si trova quella regione dell’Ucraina. Lì, milizie popolari, gruppi paramilitari, soldati della guardia nazionale vivono accanto alle persone normali che devono sostenere minacce, rapimenti, stupri e torture. Dalla prima storia si passa alla seconda in cui lo spettatore si trova alla fermata di un autobus assieme a tre ragazzine che parlano di sesso, d’amore e di rabbia, di perdite e di normalità anche dove la normalità non esiste. Di quelle ragazze ne resta una che attende qualcuno e qualcosa e, rabbiosa, maltratta l’unica persona che si prende cura di lei.
Un luogo dove il male genera male
Bad Roads sa essere addirittura cinico, intriso di una vena, quasi impercettibile di comicità amara e dolorosa, generata solo dal dramma più profondo, sa essere surreale, inquietante e poi diventa una narrazione ansiogena dei sentimenti che esistono anche nelle zone di guerra anche se estremamente sbagliati (quello di una ragazza per un “fascista”, del carnefice per la sua vittima), è brutale, di una brutalità insostenibile, “volgare” e dilaniante. Il terzo episodio infatti è un vortice di violenza che immerge lo spettatore in uno scontro corpo a corpo, mente a mente, lingua a lingua tra un uomo e una donna, un militare sadico che tortura una giornalista. Questa è una storia complessa, piena di contraddizioni (è sottile e labile il confine tra odio e attrazione, tra ribrezzo e desiderio, tra chi mente e chi dice la verità) in cui la ragazza tenta disperatamente di entrare in empatia con il suo aguzzino che è un bruto, selvaggio con ogni centimetro di sé. Da parte della vittima c’è il tentativo di dialogare con quella belva infarcita di valori militari ipersessualizzati: l’uomo virile, sempre pronto, la donna utile solo per il sesso. Dentro quel concentrato di violenza ci deve essere un po’ di umanità, non è possibile che l’assassino che odia ebrei, gay e i “valori europei” abbia cancellato quel ragazzo amorevole con la nonna. La regista mette nel film un racconto sentito con le proprie orecchie da una giornalista che nonostante le difficoltà, si era aperta e le aveva narrato le violenze subite ed è rimasta colpita dal fatto che per la giovane donna quella prigione (non prigione perché non era segregata) era diventata un luogo paradossalmente “sicuro”. Bad Roads sembra dire ad un tratto che forse c’è una speranza addirittura in quel luogo, ma no, non nel Donbass perché purtroppo il male genera male, il dolore genera dolore. Se tutto affonda le sue radici nella paura, nell’odio, non ci può essere possibilità di salvezza.
Proprio infatti a questo si aggancia l’ultima storia profondamente e cinicamente ironica: una brava ragazza investe una gallina, vuole risarcire i proprietari ma si ritrova prigioniera di un incubo, due contadini che potrebbero diventare i suoi aguzzini. Solo fuori dalla scena c’è possibilità di incontrare l’umano: un pianto di un bambino, una donna che chiama a gran voce i due contadini; lì sta la coscienza. La regista vuole rappresentare un mondo che, a causa della guerra, può modificarsi improvvisamente.
Bad Roads: un film che racconta l’animo umano
Vorozhbit sa raccontare ed è capace di mostrare la tragedia da lontano ma anche quando inquadra i volti dolenti dei protagonisti, svuotati della loro umanità, illuminati da una luce quasi sinistra anche se c’è il sole. Il film della regista ucraina vuole portare al centro dell’analisi l’essere umano che si manifesta ancora di più nelle zone di confine. Ciò si fa ancor più evidente durante la guerra: qualcuno soccombe, altri scendono a patti con sé stessi e con il nemico, altri ancora compiono azioni criminali e infine c’è chi subisce iniziando a dialogare con il proprio lato oscuro.
I personaggi di queste storie vivono il dolore di chi ha come compagna la morte, di chi sente in continuazione il fragore delle bombe, di chi si innamora del nemico secondo una inquietante sindrome di Stoccolma. Anche i più buoni iniziano ad essere contagiati dal male e dal dolore e ne restano “deformati” per sempre. Bad Roads è una storia raccontata da chi l’ha vissuta sulla propria pelle e colpisce proprio per questa sua forza e immediatezza, sconvolge perché è un’opera diretta, che spaventa per la sua durezza ma che serve per capire cosa possa fare la guerra.