Gli occhi nelle opere di Tim Burton
Occhi che si aprono, fissano, emergono dal profondo dell’anima come sub dalle acque gelide dell’oceano, tralasciando sul canovaccio flebile di una pellicola dismessa una continua domanda. Il bandolo della matassa è Tim Burton: unico rappresentante di un’arte viva solo a metà e di uno stile singolare, forte fin dal principio ma consolidatosi col tempo e che mai troverà una fissa dimora nel caleidoscopico mondo della settima arte.
Il suo ultimo lavoro, Big Eyes, spiattella già solo nel titolo – e si potrebbe dire solamente in quello – la sua atavica prerogativa: lo sguardo. In tutte le opere di Timothy William Burton i protagonisti hanno occhi grandi, spalancati, privi di palpebre; sono occhi perfettamente circolari, che coprono la maggior parte del viso, obbligando lo spettatore a travalicarli, introiettandolo in un universo parallelo. Il regista di Burbank, cresciuto vicino a Hollywood e ai depositi della Disney, della Columbia e della Warner, affinò il suo talento tra le mura domestiche, il cimitero del paese e la visione di film di serie B, ma anche le pellicole degli italiani Mario Bava e Federico Fellini, nonché le orrifiche letture di Edgar Allan Poe.
Gli occhi nelle opere di Tim Burton: universi paralleli da oltrepassare
L’organo della vista, mezzo per eccellenza della conoscenza (specie nel nostro secolo) diviene simbolo e sede di significati particolari, nonché chiave d’accesso di un regno altro dal mondo, meraviglioso e al contempo tremendamente inquietante.
Da Hellen, la sposa cadavere di Corpse bride a Ichabob e Katrina in Il mistero di Sleepy Hollow, proseguendo con altri racconti, si delinea un percorso di cui però Burton non sembra esserne il solista, bensì il continuatore e, per certi versi, il ristrutturatore forastico. Alfred Kubin, Odilon Redon e, a quanto pare, anche da Margaret Keane (interpretata da Amy Adams in Big Eyes) sembrano essere le sue muse.
Così nella poetica cinematografica di Tim si notano pennellate vicine alle allucinazioni che assillavano l’espressionista Alfred Kubin; scenari in bianco e nero, viscerali e intensi, folli e venati di quella fantasia destino che caratterizza le opere del boemo.
Un collegamento più diretto inizia a intravedersi invece col simbolista Redon, definito il pittore dei sogni. Nei suoi quadri vivono creature oniriche e fatate; raffigurazioni ciclopiche fanno riferimento al suo periodo noir, mentre ruotano intorno al 1880 i lavori ispirati alle opere di Edgar Allan Poe. Tra queste spicca l’opera Oeil-Ballon, in cui viene raffigurato un occhio rivolto verso l’alto, simile a un enorme pallone sospeso in aria, al di sotto del quale emerge una testa mozzata con occhi sgranati e terrorizzati, simili a quelli che caratterizzano L’Uovo (lo stesso soggetto viene dipinto dalla remissiva Margaret su una culla, nella scena in cui inizia a lavorare presso il mobilificio).
L’ispirazione timburtiana, infine, si concretizza in un tenero e afflitto cuore di donna. Margaret Keane inizia a dipingere nel 1958, anno di nascita del regista il quale, in un’intervista rilasciata a Carlo Bizio, racconta: Ricordo i suoi quadri quando ero piccolo, quei ritratti strani erano dappertutto. E parlando del film dice: ho provato un senso di intima familiarità col personaggio di Margaret […] Quando ero bambino parlavo a malapena. E mi affascinavano le persone capaci di parlare. Margaret parla poco, mentre Walter è un abile oratore, e da qui sorge la nevrotica dinamica tra i due, un connubio tra opposti. Il caso bizzarro di due persone diverse che diventano una strana cosa singola, una forma di vita ibrida, Keane… Margaret è una personalità non verbale, come me. Non è capace di farsi valere con la parola. Si esprime con le sue tele, lascia che sia la sua arte a parlare per lei. Io funziono allo stesso modo.
Vediamo allora le espressioni più bizzarre di Tim Burton! In The boy with nails in his eyes il piccolo protagonista, a causa dei chiodi conficcati nei bulbi oculari, non riesce a vedere l’albero di Natale realizzato, credendolo più bello di quello che realmente è.
In Corpse bride la protagonista Hellen è una giovane sposa cadavere dal cuore infranto, derubata e brutalmente accoltellata dal futuro marito prima delle nozze e rimasta in bilico tra la vita e la morte, nell’eterna attesa di una storia d’amore.
Gli occhi di Helen sono enormi, espressivi e imponenti sull’esile volto; uno dei due è abitato da un simpatico vermetto, che in situazioni surreali o difficilmente gestibili lo fa scivolare via dal bulbo, sostituendo la vista della giovane sposa con la sua voce. Si innesta qui una doppia personalità: cosciente della sua condizione quando entrambi gli occhi sono avvitati alle orbite e speranzosa, stanca e affranta nel momento in cui Maggot (il vermetto) interferisce.
Una condizione per certi versi simile a quella nella quale si ritrova Margaret, indotta dalla sua anima a dipingere un mondo che sa parlare prevalentemente con lo sguardo; ma è un mondo che, al contempo, viene attratto unicamente da quegli occhi melanconici, oltre i quali l’artista si nasconde talmente bene da essere confusa col marito.
Il mistero di Sleepy Hollow si snoda invece attorno a un disegno raffigurante un occhio, inizialmente inteso negativamente come rappresentazione del malocchio, ma in realtà avente un’eccezione positiva, inerente la tutela della persona amata. Dunque l’occhio disegnato da Katrina e trovato da Ichabod altro non è che un gesto d’amore, un modo per sottolineare quanto sia importante vedere, ossia distinguere il bene dal male.
Abbiamo poi Big Fish, in cui il protagonista Edward Bloom vede riflesso il suo futuro nell’occhio di vetro di una strega e Nightmare before Christmas in cui il re dark ha invece degli enormi fori neri con i quali scopre il mondo esterno, fatto di gioia e dei colori del Natale.
Pochi sassolini lanciati nell’infinito, tutti questi occhi che animano il mondo di Burton e che adesso confluiscono come per magia in Big Eyes. Reputato per certi versi deludente e ben lungi dall’essere vicino alla classica rappresentazione del regista californiano, eppure incredibilmente vicino alla sua anima e alla sua infanzia. Forse quegli occhi che ci fissano, indelebili sulla pellicola e sulla tela, vogliono solo indurci ad andare oltre le apparenze; vogliono solo dirci che spesso basta guardare il mondo da un’altra angolazione per rendesi conto di quanta bellezza ci sia intorno.