Venezia 77 – Genus Pan: recensione del film Lav Diaz

Lav Diaz torna al Festival di Venezia e lo fa con Genus Pan, una favola nera raccontata con superstizione dai personaggi del film.

Lav Diaz ha partecipato nel 2015 alla Mostra di Venezia, ha presentato al mondo la sua opera di quattro ore The Woman Who Left e se ne è andato portandosi dietro il Leone d’oro per il miglior film in concorso. Fatto determinante di per sé, se non fosse che la vincita contrastata dell’autore filippino ha poi aperto un puntualissimo dibattito sulle potenzialità e le funzioni dei festival d’arte cinematografica, facendo interrogare pubblico e mondo della critica sul compito stesso delle manifestazioni e su quanto, un evento come Venezia, debba scontarsi con la portata di tutti o rimanere circoscritto al proprio harem di cinefili devoti.

Sta di fatto che The Woman Who Left vinse il premio battendo pellicole come La La Land, Arrival, Jackie, titoli di punta di una Hollywood contemporanea e autoriale (tra i registi anche un cileno come Pablo Larraín, tornato negli anni seguenti con il più carnale e “territoriale” Ema) scatenando un flusso di riflessioni per nulla scontate o sconclusionate, determinando invece inediti dettami per ciò che, forse, avrebbe dovuto significare un momento come quello per la Mostra di Venezia e il suo rivalutarsi, arrivando tre anni dopo a premiare un semi-comic movie come il Joker di Todd Phillips.

Ritornato, però, nelle giornate del festival quattro anni dopo, a Lav Diaz non è più riservato il concorso ufficiale, bensì eccolo spartirsi un posto nella categoria di Orizzonti, sezione affine a quella che permette di alzare in mano il Leone d’oro. Una vincita, però, è impossibile non affidarla all’innovativo autore asiatico, che con il suo, forse minore e proprio per questo declassato di classifica, Genus Pan si aggiudica la miglior regia per Orizzonti alla 77esima edizione del Festival di Venezia.

Genus Pan – Da concorso a (vincitore per) Orizzontigenus pan, cinematographe.it

Un’identità minore non perché inferiore qualitativamente o narrativamente rispetto ai suoi predecessori, né lontanamente avvicinabile a prodotti inferiori o anche solamente mediocri che nulla avrebbero a che spartire con un guizzo creativo come quello di Lav Diaz. Ciò che caratterizza il Genus Pan del cineasta è un adagiarsi delle proprie immagini e del loro modellarsi rispetto al solito stile prolungato e risoluto distinguibile del suo regista, una sorta di morbidezza di fondo che rende più fruibile e maneggiabile l’intera opera facendo in modo che fosse il più trasmissibile possibile, riducendo in questo anche le solite durate dei film dell’autore, optando per le due ore e mezza di una favola nera immersa nelle contraddizioni e condizionanti della natura.

In un racconto di avventura che raggiunge i tratti della leggenda, delle storie appartenenti a luoghi, culture e usanze dai connotati anche misteriosi che vengono bisbigliati nelle fronde della flora rigogliosa o della giungla inospitale, Genus Pan fonde la ricerca, il viaggio, lo spostarsi maledetto dei suoi protagonisti per un rimando a superstizioni e credenze che riempiono di rituali e simbologie la pellicola illuminata dal bianco e nero. Un itinerario che sembra già segnato e che il destino vedrà modificarsi a seconda delle scelte compiute dai suoi personaggi, dalla fiducia nel prossimo, nella volontà di non cedere al fanatismo o alla superstizione, ma navigandoci comunque a vista d’occhio.

Genus Pan – Le superstizioni sovrannaturali dei personaggigenus pan, cinematographe.it

Un mito che, se presente nel passato, sarebbe stato tramandato attraverso l’utilizzo della parola, utilizzando l’arte del racconto per trasmettere una conoscenza e un insegnamento che avrebbero tutti appreso soltanto ascoltando, ma che Diaz traspone con la sua camera fissa dando loro sostanza come immagini. Un’immobilità che, però, proprio in riferimento a quella scioltezza di quanto osservato prima, non si chiude ossessivamente nel proprio perimetro, ma scorre con una diversità notevole che forma, così, un film molto più asciutto e all’apparenza più semplice da poter guardare, legato dalla scene consecutive e fluidamente amalgamate di Diaz.

Con un’animosità che attanaglia i personaggi e che li pone in una convinzione sovrannaturale come quella di trovarsi in preda alla vendetta o al favore della selva in cui si è è dentro, Genus Pan è un Lav Diaz discorsivo sia in narrativa, che in regia, non eccellendo per una vena particolarmente ispirata o solenne del regista, ma continuando ad essere ammirato per i suoi grandissimi pregi artistici, impossibili da svalutare.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.5