LFF16: French Blood – recensione del film di Diastème
French Blood è una pellicola a cui si assiste con lucida rassegnazione. Siamo in Francia, e la geografia politica degli ambienti è opaca come nei libri di Zola, Parigi è la cornice bruciata viva, le vite dei personaggi sono teatri dimessi ripetuti all’infinito e al centro di tutto c’è il disagio di una generazione che muove i primi passi a metà anni ‘80, quando un never young Jean Marie Le Pen mortificava quella parte lesa della Francia seducendola con il sogno del fascismo imperiale definendolo fronte nazionale.
French Blood: una storia di odio fra American History X e La Haine
Titolo originale è Un Français, presentato al Toronto International Film Festival nella sezione Platform, e non è un caso che il titolo rimanga sul generico, sommessamente tradotto con la volontà di spettacolarizzare la violenza congedando il vero protagonista del film, mal celato ma presente come uno schiocco di lingua tra denti serrati dalla rabbia.
Patrick Asté meglio conosciuto come Diastème, compositore e drammaturgo francese, dirige e narra l’historie de la vie di Marco Lopez (Alban Lenoir) che assieme ai suoi amici Fly, Grand-Guy e Marvin sopravvive tra le fognature di una metropoli che troppo spesso rigetta i suoi abitanti: quattro teste rasate che coprono di calci e sputi chiunque non appartenga alle viscere naziste, chiunque fosse di colore, omosessuale, comunista e non partecipasse al loro tumulto raggelante. In preda a depredazioni e risse sempre più violente, il loro operato sconvolge di tanto in tanto solo i Tg locali,senza che potesse mai diventare un problema reale per le vite altrui; la degenerazione delle loro vite e il distacco di quelle preesistenti è una realtà vera ieri quanto oggi: quel tacito accordo tra generazioni rappresenta un rapporto padre e figlio, subdolo e pavido, che non sa come imporsi, non sa educare, non sa parlare, e che se non preso di petto subito può sconfinare in un disastro perpetuo, senza perdono o animi redenti.
Ecco, quanto accade a Marco è una redenzione stonata ma reale; la narrazione di French Blood è un po’ American History X un po’ La Haine, ha un sottotesto debole ma visibile: l’odio. È fondamentale capire e concentrarsi su questo segmento emotivo per poter cogliere alcune voragini storiche che imperversano nella pellicola, nonostante essa abbia una fluidità apprezzabile alcune cose mancano, non vengono colte per bene o sviscerate realmente. Questa caducitá espressiva è notevole poichè lo spettatore capisce fin da subito che la vita dei nazi francesi non ha la prioritá, nulla ha una prioritá, il protagonista è pervaso da una trasparenza registica, il vero volto del film è la bandiera della Francia, mortificata, idolatrata e a brandelli, stretta in un pugno di aberrazioni e sangue rappreso, congelata tra le note balorde della Marsigliese, reduce di un delitto efferato. La politica francese, i partiti catto-leghisti come quelli del Fronte Nazionale pullulano con ampio respiro tra le difficoltá dei personaggi, scavano nelle loro debolezze, indugiano nelle mancanze, nelle ignoranze. Insomma nell’arco di un tempo tanto grande quanto ridimensionato che va dagli anni ’80 agli ‘00, Marco è l’unico che riesce a percepire l’inutilitá del suo odio, l’nefandezza della sua vita e portarla in auge con l’operosità di chi conosce l’ampiezza del suo peccato e soprattutto l’inconsistenza del suo rigetto verso tutto e tutti. I suoi cosiddetti compari non sfuggono dal loro male, non fanno in tempo, velocità e lungimiranza in gioventù sono terre distanti. E quel fronte nazionale o meglio definirlo stalla nazionale dei cuori infranti continua la sua propaganda per tutta la durata della pellicola, e lui con il talento di chi può e deve intromettersi finalmente reagisce e prende una posizione corretta, ma corretta solo perché non imposta, non compromessa ma condotta con la mente e lo spirito di chi sa scegliersi una strada.
French Blood non è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani, questo è il film di un uomo in attesa, in attesa che qualcosa lo colga dall’alto, che lo salvi all’ultimo. Marco si getta da quel palazzo immaginario ogni giorno della sua vita, senza che nessuno lo prenda da un braccio, conosce la caduta, il colpo e l’asfalto meglio di chiunque ed è l’unico che dopo tante ferite auto-inferte capisce la differenza tra chi si butta per un palazzo per convinzione e chi ti spinge a farlo.
Marco è la voce di un uomo che non ha mai avuto un’inflessione, uno spessore, un vezzo. È il diario di bordo di una nazione che ha perso il diritto di replica a fronte di un disagio mai risolto, un paese ideologicamente alla deriva come la Germania, la Grecia o la stessa nostra Italia, che non permette di realizzarti.
French Blood è in concorso nella sezione lungometraggi al Lucca Film Festival 2016.