LFF16: La Masterclass di Paolo Sorrentino
Il Lucca Film Festival 2016 ha visto molti personaggi solcare e attraversare i suoi palchi, ed ognuno a suo modo ha saputo apportare il proprio prezioso contributo ad un festival come quello di Lucca che sta vivendo un’ascesa superlativa. I battiti finali sono toccati ad un’esegeta della metafisica filmica, Paolo Sorrentino.
La giornalista Silvia Bizio ha dialogato con Paolo Sorrentino e il pubblico a proposito di ciò che lo circonda e che abita il suo cinema.
Il regista ha subito esordito con una digressione sulla nascita della sua passione per le arti e di come il suo lavoro sia stato fortemente legato al suo carattere, che la collocazione più adatta fosse in qualche modo la scrittura filmica.
In gioventù cominciò a mandare le sue sceneggiature ad alcuni concorsi e, dopo tante porte chiuse, vinse il Premio Solinas dove ebbe la fortuna di conoscere quello che poi sarebbe diventato il produttore di tutti i suoi film, Nicola Giuliano.
“Ho sempre trovato inverosimile diventare regista, non lo dichiaravo apertamente che auspicassi alla regia mentre scrivevo sceneggiature, credevo di non avere l’indole adatta o l’attitudine al comando“. Il cinema è uno dei pochi luoghi dove la dittatura è consentita, sentenzia in tono quasi comico, che gravitando attorno alla sua indolenza caratteriale porta il pubblico all’interno del suo complesso universo fatto di non scelte. Inoltre Sorrentino ammette di non possedere un bagaglio considerevole in materia di pellicole viste, un po’ per pigrizia un po’ per i gusti di gioventù mantenuti saldi e identici a quelli di oggi, ovvero Truffaut, Fellini, Scorsese, Jim Jarmusch, i fratelli Coen.
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Al primo cortometraggio commise tutti gli errori che si potevano commettere a livello di regia, e da li imparò in qualche modo quello che al cinema e alla direzione di un film non si deve assolutamente fare: eppure l’estetica dei film gli era ben chiara, possedeva in qualche modo il gusto per le inquadrature.
Discorso differente fu relazionarsi con gli attori, con la loro recitazione. Apprese più tardi le dinamiche attoriali e come porsi con complicità e contrasto attraverso la recitazione, anche grazie al rapporto instaurato con Tony Servillo, che seguì una strada particolare: l’attore napoletano apparteneva al teatro e ad una gestualità e linguaggi differenti, anche Sorrentino si sentiva appartenente a quell’universo anche se in maniera molto più camuffata; le stilizzazioni teatrali in qualche modo sono state sempre presenti, come anche la letteratura nei suoi film. Servillo fu determinante soprattutto per i primi due film che li vedono insieme, cioè L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore. La cosa che si coniuga bene tra i due è la vera comicità che intercorre tra loro, sul set hanno lo stesso atteggiamento, quello di non prendersi sul serio, quello di credere che non si stia facendo qualcosa di importante, un atteggiamento cameratesco che é il motore che fa lavorare bene.
Paolo Sorrentino: “Pongo molti veti a me stesso, ci sono tante cose che non posso fare, la regia come la sceneggiatura deve seguire dei principi miei, per questo spesso lavoro da solo.”
Il Divo nacque da una immagine precisa: Sorrentino racconta di come trovò una rivista su una bancarella su cui era trasposta un’intervista a Giulio Andreotti di Roberto Gervaso, in cui spiegava che la cosa che più l’aveva colpito era che quando gli si rivolgeva la parola lui rispondeva con gli occhi chiusi. Questo dettaglio scatenò il desiderio di volersi porre e proporre un film a proposito di una delle figure più controverse della storia della repubblica italiana.
Il Divo fu molto travagliato, spiega il regista, nessuno voleva farlo, aleggiava una certa paura, e dopo aver rimandato le riprese arrivarono a subire sordide intimidazioni, segnalazioni che però non fermarono mai la troupe.
La vita di Andreotti era totalmente frutto della sua immaginazione, mentre della res publica si era largamente documentato: quando Andreotti vide il film ammise che per lui Sorrentino, contrariamente al reale, era stato abile nel documentarsi della vita privata e ad inventarsi la vita pubblica.
La conversazione incede in modo incalzante spostandosi sul suo primo film in inglese, This Must be the Place, e di come conobbe Sean Penn a Cannes, che ammise di voler lavorare con lui dopo aver premiato il Divo durante il Festival. Secondo Sorrentino, quel film è stato uno dei più piacevoli da scrivere e soprattutto da girare poiché per chi si è formato con i film americani, girare in quegli stessi luoghi era letteralmente un sogno che si avverava. “Una caratteristica dei grandi attori è quella di aggiungere delle particolarità al personaggio, si infilano negli spazi liberi, negli interstizi, e se ne impossessano.”
La bellezza di questo lavoro, è il lavoro per il lavoro, afferma il regista, disquisendo sulle dinamiche che lo hanno portato a trionfare con La Grande Bellezza, e di come il sentimento per la città di Roma fosse reale, la metafisica e la percezione del film corrispondeva alle sensazioni sul set.
Inoltre asserisce che tra lui e Roma intercorre ancora un rapporto turistico, senza però l’incubo del ritorno a casa, che è la condizione migliore per vivere in una città.
Questo film nasce da un bar della zona Prati di Roma, in cui lui si trovò ad assistere ad una scena tragicomica in cui un dirigente Rai corteggiava una ragazza dell’est: lo spunto nacque da li e di come quell’universo in qualche modo andasse raccontato, anche se è una cosa comune a tante città, ma a Roma è più visibile perché è succube di tanti centri di potere, diversi ed imperanti. La Dolce Vita è stata veicolatrice di molte cose, ma verso di lei il regista ammette di sentirsi debitore di un concetto, quello di cercare la bellezza nello squallore: ciò ti mette al riparo dal brutto, sempre.
Anche il nucleo iniziale di Youth trovò la luce da un altro fatto reale, ovvero il rifiuto di Muti di andare a suonare per la regina Elisabetta per una divergenza sul repertorio: era impensabile che un uomo rifiutasse di suonare per una regina, ma Muti lo fece e scatenò in qualche modo la miccia iniziale che poi lo portò a comporre questa pellicola. I pensieri che gravitano attorno al film, sulla vecchiaia e l’ossessione per l’invecchiamento sono in qualche modo retroattivi e non consequenziali alla scrittura del film in questione; è stato catartico e gli permise di superare quella fase aritmetica in cui si misura,si riflette e vengono bilanciate tutte le fatte e le malefatte.
Sorrentino in ultima istanza si sofferma sul suo ultimo lavoro non ancora terminato, The Young Pope, in uscita a novembre, e di come la sua procedura registica di una serie tv in verità somigli molto a quella di un film, particolarità data dal suo intercedere: possiede una velocità e un ritmo che è apprezzato nel mondo delle serie, poichè necessita uno slancio maggiore, che ha sempre coinvolto anche le creazioni delle sue pellicole. Queste somiglianze lo hanno portato a non avere difficoltà nel dirigere un prodotto leggermente diverso.
Infine si confronta con il pubblico, che con toni disincantati e reverenziali portano il regista a far cogliere molto dei suoi vezzi da scrittore, come l’assoluta presenza di un tema ricorrente all’interno delle sue pellicole, la solitudine. Sorrentino applica ai personaggi dei film caratteristiche sue, camuffate e celate quanto possibile. Confida ad un curioso appassionato che un genere in cui si misurerebbe piacevolmente é il noir, perché è torbido, perchè il bene e il male si mescolano,perchè la notte fa da padrone con al centro un’instancabile femme fatale.
Sorrentino ha sempre tenuto vicino a sè quelle divagazioni sull’insensatezza, che è quanto di più bello ci sia nella cinematografia.
La nostra vita è un lunghissimo piano sequenza, un orizzonte temporale perpetuo di emozioni.