La vita che volevamo: recensione del film Netflix che punta agli Oscar 2021
La recensione de La vita che volevamo, il film Netflix che punta agli Oscar 2021, con Lavinia Wilson e Elyas M'Barek.
La vita che volevamo è una pellicola scelta dall’Austria per candidarsi a Miglior Film Straniero nella cerimonia degli Oscar 2021. Un dramma che prepara un percorso doloroso da affrontare in dinamiche sottili, dove le espressioni facciali contano quanto un dialogo ben costruito. È la storia di Alice (Lavinia Wilson) e Niklas (Elyas M’Barek), una giovane coppia che sta coltivando da molto tempo il desiderio di avere un figlio. Dopo vari tentativi e numerosi fallimenti, decidono di dedicarsi uno spazio tutto loro per godersi una vacanza in Sardegna, per schiarirsi le idee. Nell’abitazione in cui alloggeranno per qualche settimana, fanno la conoscenza di una famiglia apparentemente felice, composta da un marito estroverso, una moglie impicciona e due figli al seguito placidi ma non seguiti attentamente nelle loro routine. Il confronto è alle porte, fra due distinte realtà di coppia che condivideranno risvolti inaspettati. Disponibile su Netflix dall’11 Novembre.
Impossibile rimediare alle pieghe di una coppia che non muta e non subisce cambiamenti
La vita che volevamo ci presenta una situazione di perenne stallo: un’impossibilità fisiologica diventa motivo di scontro continuo, incessante, condotto senza pietà. Il clima di tensione si respira in ogni fotogramma, tanto che la regia impiegata si mette da parte per adottare l’ottica di uno spettatore interessato ma non invadente. Il legame fra Alice e Niklas è ben lontano dall’essere stabile; in ogni occasione di dialogo diretto e sincero, ci si blocca di fronte all’ostacolo di un bambino da crescere ma che non è mai venuto alla luce. Il film non utilizza filtri, non vuole mantenere le distanze da queste condizioni critiche e cerca di far luce su un’idea di famiglia che non può essere messa in atto.
Il risultato è un interminabile apnea: si trattiene il respiro, sperando di trovare assieme ai protagonisti dei risvolti positivi. L’unica soluzione sembrerebbe seppellire la concretizzazione di un nuovo arrivo che possa rendere felice la coppia, ma l’atmosfera si fa via via sempre più tesa fino all’inevitabile scontro con frasi dure da digerire, talmente incisive che si attaccano persino alle pareti di un’abitazione neutrale, innocua, immersa in una natura incontaminata. La magnifica location e la presenza dei vicini di casa non può far nulla di fronte ad una tragedia intestina, frutto di anni di sforzi e sacrifici.
Da rivedere, in La vita che volevamo, la gestione dei tempi e le pause effettuate per assorbire i sentimenti di anime mai complete
La Sardegna come teatro di guerra è difficile da visualizzare, eppure Ulrike Kofler, al suo esordio come regista, ci convince ad eliminare ogni sorta di colore acceso che potrebbe fungere da appiglio in una vicenda fortemente drammatica. Gli squarci ben riprodotti, i panorami sconfinati, il mare limpido che si staglia all’orizzonte: ogni elemento in scena non ha la stessa forza espressiva dei volti scavati e disfatti dei due protagonisti Lavinia Wilson e Elyas M’Barek. Conducono insieme una danza del dolore prima suggerito, poi rilasciato a piena potenza come un esplosivo programmato verso l’atto finale.
La durata di novanta minuti però soffre di parentesi introspettive che si ripetono spesso, fasi riempitive che girano attorno un concetto di base ormai spiegato nei suoi dettagli, anche i più impercettibili. La carica emozionale da esporre gradualmente, con un pathos che muta forma col passare dei minuti, è una mossa assai rischiosa: con questa scelta si va a giocare con le aspettative dello spettatore. Nel desiderare una risposta certa su quella che è una realtà soffocante, viene preparato un finale aperto a interpretazioni. Dopo aver introdotto due attori ottimamente guidati da una cinepresa affamata di particolari scenici e facciali, queste stesse figure centrali vanno a perdersi in silenzi inspiegabilmente lunghi e senza più informazioni da aggiungere.