L’Uno: recensione del film di Paolo Carenzo
Su Chili il 23 novembre arriva L'Uno, adattamento cinematografico dell'omonima pièce teatrale della compagnia Contrasto dal sapore inquietantemente profetico. Una prospettiva intrigante sulla battaglia quotidiana per le nostre identità.
Più che oggetto di timori apocalittici e ansie verso il futuro, il nuovo anno è, diciamoci la verità, un ricorrente capro espiatorio a cui puntualmente un po’ tutti quanti attribuiamo un’importanza tale da diventare il motivo scatenante di numerose buone intenzioni. Niente di più quindi che una scusa per la procrastinazione. Così deve essere stato anche l’ultimo dell’anno del 2018, un fine anno normale, come tanti altri, lontano da un apocalisse imminente.
La piéce teatrale della compagna Contrasto, per la regia di Paolo Carenzo, uscì all’epoca suggerendo un interessante metafora che avvicinava l’idea de l’uno gennaio a quella di un altro Uno, un oggetto non identificato, comparso nello spazio, vicino il nostro Pianeta, spettro delle ansie dell’umanità nei riguardi di una fine fuori dal proprio controllo. Terribilmente vicino all’ansia che permea tutti noi in questo anno terribile, in cui la pandemia da coronavirus ci sta ricordando quanto siamo ancora tutti solo dei teneri pargoletti coccolati dall’illusione del controllo.
L’Uno è interpretato da Elena Cascino, Matteo Sintucci, Stefano Accomo, Anna Canale, Alice Piano e Carlo Alberto Cravino. La regia è di Alessandro Antonaci, Stefano Mandalà, Daniel Lascar e Paolo Carenzo. Il film arriverà su Chili il 23 novembre.
Cena per quattro (più due)
A capodanno c’è il coprifuoco, non è possibile creare assembramenti e sono vietati i fuochi d’artificio (anche ai bambini). Vietato anche accendere la televisione e, soprattutto, parlare di quello che sta tenendo il mondo per la gola da quatto mesi, anche se c’è una sua rappresentazione in scala proprio attaccata al muro. Sono pronti a giurarlo più o meno tutti gli invitati e gli imbucati presenti alla cena organizzata a casa di Marta (Elena Cascino), una nevrotica architetta con la mania del controllo e la sindrome da dispotismo avanzata. La classica persona da non far irritare per capirci.
Ne sanno qualcosa i baffi del fidanzato Tommaso (Matteo Sintucci), un laureando in scienze della comunicazione che vive sommerso dall’arredo di design contemporaneo scelto dalla sua dolce metà, terrorizzato a trent’anni per l’assenza di un dolce dal menù del cenone. Fortuna che stanno per arrivare Giulio (Stefano Accomo), il migliore amico di Marta, e soprattutto, la sua “dolce sorpresa d’oltralpe”. Speriamo si ricordi di portarla dopo la nottata brava passata all’Osservatorio. Incredibile che abbia deciso di bersi quattro negroni ad una festa. Ma chi è che esce il 30 dicembre?
Una volta arrivato lui nulla potrà più andare storto, sperando che Cecilia (Alice Piano), la sorellina minore della padrona di casa, non arrivi a mezzanotte meno cinque, ma almeno in tempo per la granita. Tutto quello che serve è semplicemente una serata tranquilla per scacciare i pensieri dall’Uno, che sia quello di gennaio o quel corpo nel cielo.
L’Uno per tutti gli altri
L’Uno è uno sceneggiato complesso e interessante per diverse ragioni. L’idea alla base è di unire topoi teatrali classici come la maschera pirandelliana a un immaginario moderno, che poteva addirittura sfociare nel fantascientifico se preso qualche mese fa, portatore di un deux ex machina rivelatorio, un Angelo Sterminatore di un mondo fatto solo di equilibri fragili e di rapporti viziati. Il fatto che l’eco di questo mondo sia ancora più forte oggi, che le distanze con esso si sono sensibilmente assottigliate, è casuale, ma da non sottovalutare nel peso specifico del potere catartico della pellicola.
Dopo una introduzione di impronta satirica le cui mire sono rivolte interamente alla comunicazione mediatica, va in scena la costruzione di un microuniverso claustrofobico dominato da una nevrotica commedia degli equivoci dal sapore amarissimo, in cui tutti i personaggi sono sul filo del rasoio, impegnati in una spietata lotta per tenere a galla un mondo fittizio basato sulle loro false identità. Il salotto è la nostra finestra sull’universo filmico, visto che praticamente l’intero minutaggio si svolge al suo interno, il che suggerisce un’impostazione del linguaggio prettamente teatrale di tutta la pellicola, che fallisce nel tentativo di tradursi in opera filmica soprattutto quando prova a farlo ricorrendo a flashback. L’impostazione scenica quasi premierebbe una ripresa più continuata e meno “montata” possibile, come testimonia la riuscita della scelta del movimento circolare della camera per alcune sequenze.
Sono molto ben dosati i tempi della narrazione, che sfruttano a pieno il ritmo suggerito dall’ingresso dei personaggi, ed è molto ben sfruttata la qualità tutta teatrale della absentia in scena di un mondo fuori, mai mostrato, se non per un elemento sul palco (in questo caso la rappresentazione dell’Uno), ma presente come non mai. Le interpretazioni, infine, sono un po’ troppo sopra le righe in alcuni passaggi.
Con l’Uno chiudiamo. Esiste? Non esiste? Ognuno ci vede qualcosa di specifico, per ognuno è divenuto qualcosa di diverso dagli altri e per ognuno è motivo valido per sentirsi in un certo modo. Come centro nevralgico di tutte le paure dell’umanità, eredi dei sentimenti primordiali di sacra paura verso ciò che è fuori dal nostro controllo (divino o naturale o extraterreste, fate voi), esso costringe tutti a porsi delle domande, a sperimentare il nuovo, a pensare alla fine, a temere il dopo e dunque al vivere l’ora: “Da quando c’è l’Uno sono sempre costretto ad essere ispirato“. La sua più grande dote è quella di celebrare la singolarità di ognuno di noi, ma di farci alzare gli occhi al cielo tutti insieme.