Maradona, una vita tra luci e ombre: i film e i documentari che l’hanno raccontata
Diego Armando Maradona è morto mercoledì 25 novembre 2020. Fatale un arresto cardio-respiratorio. Il 30 ottobre aveva compiuto sessant’anni. Da meno di due settimane si era stabilito nella sua abitazione di San Andres, a Tigre, area metropolitana di Buenos Aires, dopo l’operazione alla testa cui si era sottoposto per un ematoma subdurale. Una notizia che segna uno spartiacque nella storia. Quella del giocatore era cominciata in un anonimo angolo della capitale argentina. Nato in una baracca a Villa Fiorito, quinto di otto figli. Un cumulo di lamiere e mattoni. Due camere senza acqua corrente. Solo fango nei paraggi. Il piccolo Diego, interpretato da Gonzalo Alarcon, è uno dei tanti bambini innamorati del pallone, ma costretti a piccole faccende utili all’economia domestica.
Maradona – La Mano de Dios (film, 2007)
È l’umile inizio di una leggenda, narrato in “Maradona – La Mano de Dios” (2007), biopic di Marco Risi che, con vari salti temporali, ricostruisce la figura di un uomo fragile, ma già grande non solo tra i suoi giovani compagni. Il pallone attaccato al piede. La testa alta. L’innato fiuto del goal. Un leader, pronto a trascinare da subito la propria squadra di quartiere. Notato dagli osservatori dell’Argentinos Juniors, Diego entra nelle giovanili del club, trasformandosi in un ‘fenomeno’. Era il talento più evidente sul rettangolo di gioco. La maglia numero dieci rossa divenne presto quella a cui tutti rivolgevano lo sguardo. Le statistiche riportano centotrentasei partite senza sconfitte. Un’incredibile striscia di risultati che gli aprì le porte della prima squadra a soli quindici anni.
Il giovane Diego, stavolta con il volto e le fattezze di Abel Ayala, strinse amicizia con il claudicante Jorge Cyterszpiler, suo futuro manager, acquistò una casa in un’area benestante per la numerosa famiglia e, soprattutto, si avvicinò sempre più all’adolescente Claudia Villafañe, il grande amore di una vita, destinato a concludersi, malgrado le figlie Dalma e Giannina, in un vortice di tradimenti e liti. Tre volte capocannoniere del campionato metropolitano, due volte del campionato nazionale. Il debutto nell’Albiceleste, il Mundialito e i Mondiali in Spagna del 1982. La consacrazione al Boca Juniors e il passaggio al Barcellona. Una carriera in costante ascesa, segnata sia dalla dipendenza dalle droghe che da un brutto infortunio rimediato durante una durissima partita contro l’Athletic Bilbao.
Le immagini di repertorio del film si susseguono e si sovrappongono a quelle in cui è protagonista l’italiano Marco Leonardi, l’interprete ‘adulto’ del film che ripercorre gli alti e bassi di un’icona del XX secolo, i traguardi e le sconfitte dell’uomo che ha riempito di orgoglio milioni di tifosi a ogni latitudine e longitudine, indossando le maglie dell’Argentina, campione del mondo nel 1986, e del Napoli. Un Maradona edonista, immaturo, circondato da cattive amicizie e in rotta con l’ambiente blaugrana lasciò il club spagnolo per trasferirsi in quello partenopeo, che ne acquistò il cartellino per tredici miliardi e mezzo di lire. Una cifra record. Il 5 luglio del 1984 la presentazione allo stadio San Paolo. Una serie di palleggi sul terreno di gioco di fronte a ottantamila increduli spettatori.
Diego Maradona (documentario, 2019)
È l’incipit del monumentale documentario “Diego Maradona” (2019) di Asif Kapadia, presentato fuori concorso al settantaduesimo Festival di Cannes, realizzato grazie alle cinquecento ore di materiale inedito che la famiglia Maradona ha consegnato al regista inglese di origine indiana. L’audiovisivo, prodotto da HBO, narra le vicende non solo calcistiche del più grande giocatore di sempre, ma anche quelle personali durante la sua permanenza a Napoli. Un pregevole ricordo dei suoi sette anni trascorsi in maglia azzurra, sotto la guida degli allenatori Ottavio Bianchi e Albertino Bigon. Un periodo d’oro per la città e la formazione campana coincidente con le vittorie di due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e una Coppa UEFA. Semplicemente irripetibile.
Filmati di partite, interviste, radiocronache, ritratti di famiglia, testimonianze private. Un racconto per contraddizioni. Da una parte, Diego; dall’altra, Maradona. Due anime in lotta in un corpo di un metro e sessantacinque per settanta chili. Un uomo insicuro e timido, forgiato dalla povertà del barrio. L’estroversa star pallonara, l’eroe di due mondi. Esistenze unite da una drammatica parabola. I trionfi, le feste, gli eccessi, la vicinanza alla Camorra. Luci e ombre. L’idillio con gli italiani interrotto dopo i Mondiali del 1990 con un rigore al San Paolo che costrinse gli Azzurri a disputare la finale per il terzo posto contro quell’Inghilterra trafitta quattro anni prima dallo stesso mediante il controverso goal di mano e da quello ‘del secolo’, dribblando cinque giocatori e il portiere Peter Shilton.
Maradonapoli (documentario, 2017)
Un declino mediatico elevato a potenza dai controlli anti-doping che costrinsero il giocatore, positivo alla cocaina il 17 marzo 1991 dopo la partita di campionato Napoli-Bari, a un anno e mezzo di squalifica e al trasferimento al Siviglia. Maradona abbandonato a se stesso, smarrito, in lacrime mai, però, dimenticato o non osannato dai tifosi partenopei, ‘riscattati’ dalla sua presenza, protagonisti assoluti del documentario “Maradonapoli” (2017), diretto da Alessio Maria Federici e prodotto da Luigi e Olivia Musini. La vicenda ‘sentimentale’ tra il campione e Partenope è raccontata attraverso le parole dei suoi cittadini, specie quelli che hanno ammirato le sue gesta sul prato verde, celebrandolo alla stregua di un dio. Un sogno a ritroso descritto da ricordi indelebili e opinioni partigiane.
È la Napoli che racconta a cuore aperto il suo simbolo senza tempo. In ogni vicolo, bar, abitazione è custodita una sua immagine. Una maglietta, una scritta, un murales. Non è, dunque, una testimonianza sportiva, ma quella più intima, veritiera e ancora desta in ogni tifoso che, da bambino o da adulto, è stato ‘travolto’ dall’arrivo del giocatore e da un’età d’oro sportiva, forse, irripetibile. Esperienze singole e non tratteggiano così un ritratto terzo di Maradona, i cui autori sono parte di una coscienza collettiva, fiera e compatta. Settantacinque minuti quasi senza alcun fotogramma di repertorio. Il regista ascolta chiunque, dall’impiegato al professionista, dalla cuoca al direttore della biblioteca del Banco di Napoli, sino a più giovani, a cui è stato accuratamente tramandato il mito.
Maradona di Kusturica (documentario, 2008)
La genuina arte popolare della narrazione si contrappone a “Maradona di Kusturica” (2008), documentario di Emir Kusturica, che approfondisce la vita del campione, creando alcuni parallelismi con i personaggi dei film del regista. La storia di colui che è entrato nell’olimpo dello sport e nell’inferno della vita narrata in prima persona. La pellicola si sviluppa nei luoghi in cui Maradona ha vissuto, tra cui Cuba dove ha curato la dipendenza dalla cocaina, e si sofferma sui pensieri e sulle riflessioni extra-calcistiche dell’uomo più che del giocatore. La droga, la famiglia, la politica. Un ritratto differente, complesso, senza filtri, da cui emerge, addirittura, la figura di un neo-attivista contro il sistema neo-liberista e imperialistica nordamericano, allora rappresentato da George W. Bush.
Dopo la positività all’efedrina ai Mondiali del 1994 e il ritiro con la maglia del Boca Juniors, la vita professionale di Maradona era stato più volte sconvolta da ricoveri d’urgenza per problemi cardiaci. El Pibe de Oro soffriva, inoltre, di bulimia ed era divenuto schiavo anche dell’alcool, alternando lunghi periodi di riabilitazione a pericolose ricadute. Arrivato a pesare centoventi chili, l’ex giocatore si era sottoposto a un bypass gastrico. La sua vita a testa e croce lo aveva, però, avvicinato ai politici del Sudamerica – intervistando il leader cubano Fidel Castro per il programma televisivo, da lui condotto, “La Noche Del Diez” (2005), appoggiando la rielezione del presidente Hugo Chavez in Venezuela e sostenendo la candidatura del sindacalista Evo Morales in Bolivia – come esplicitato dalle immagini del documentario.
Maradona in Messico (miniserie, 2020)
La vita professionale del controverso campione ha conosciuto un’improvvisa ripresa nel 2008: il 28 ottobre fu nominato nuovo commissario tecnico dell’Argentina, conducendola alla qualificazione ai Mondiali del 2010, disputati in Sudafrica. L’Albiceleste si fermò ai quarti, umiliata con un rotondo 0-4 dalla Germania. La carriera del Maradona allenatore, iniziata con il Textil Mandiyú e il Racing Club tra 1994 e 1995 durante l’ennesima squalifica, annoverò due tappe tra Al-Wasl e Fujairah, club di prima e seconda divisione degli Emirati Arabi Uniti, prima di una terza in Messico, come tecnico dei Dorados, club messicano in lotta per conquistare la promozione in Liga MX. Sarà la penultima panchina su cui accomoderà il campione, prima dell’approdo su quella del Gimnasia La Plata.
La parentesi alla guida dei Dorados, tra 2018 e 2019, è stata seguita dalle telecamere di Netflix, trasformandosi in una miniserie “Maradona in Messico” (2020), a cura di Angus Macqueen. Il club di Culiacán, area controllata dal cartello di Sinaloa, è da tempo in crisi, confinato agli ultimi posti della classifica. Maradona, trascinatore anche fuori dal campo, non si presta a facili ironie, risolleva le sorti dei Dorados, conducendo la squadra a sfiorare il ritorno in massima serie. È l’ultima saga latina, commovente, struggente, che rivela, una volta in più, l’altra faccia di Diego, i suoi sfoghi e il suo bisogno di tenerezza. Un ulteriore affresco di un gigante del pallone, in attesa del prossimo film di Paolo Sorrentino “È stata la mano di Dio” e di un’altra serie tv, “Maradona: Sueño Bendito”.