Quarto potere: recensione del film culto di Orson Welles
A ottant'anni dalla sua uscita nelle sale, 'Quarto potere' continua ad avere molto da dire.
Mentre su Netflix arriva Mank, documentario di David Fincher che ritorna al mistero della paternità della sceneggiatura di Quarto potere, il primo lungometraggio di Orson Welles, che all’epoca della distribuzione, nel 1941, non aveva ancora compiuto ventisei anni, continua a essere oggetto tanto d’ammirazione quanto di discussione.
Espressione di un cinema plastico ed esteticamente sontuoso che non rinuncia ai suoi artifici, ma anzi amplifica le potenzialità del suo mezzo, Quarto potere insegue, attraverso la mediazione dell’impenetrabile reporter-detective Thompson, l’enigma post mortem rappresentato dalla figura Charles Foster Kane, magnate dell’editoria e mastino della politica, un uomo che ha sempre conquistato posizioni, potere e ricchezze per poi perderli, secondo lo schema interiorizzato che, ripetendolo, esorcizza il trauma originario: lo strappo dalla madre.
Quarto potere interroga lo spettatore più di quanto non ne sia interrogato
In Quarto potere, la scena coincide con l’investigazione giornalistica, con la paziente ricostruzione della verità di un uomo – l’uomo dietro l’icona, la sostanza sentimentale dietro la maschera – attraverso il ricorso a cinque diversi punti di vista, tutti parziali, ciascuno nello scacco dell’approssimazione. Non è, dunque, lo spettatore a interrogare il film per saperne di più, ma il film a interrogare lo spettatore, a richiedergli lo sforzo non di interpretare quanto vede ma di sostare nell’empasse, nell’impossibilità di sciogliere il segreto al centro della rappresentazione, segreto che espugna l’animo umano e lo rende continuamente alieno a se stesso.
In fondo, la domanda che attraversa il film e che più della sua tecnica straordinaria lo rende ancora attuale non è chi o che cosa Kane ami, se la sua professione, sua moglie o solo se stesso, ma cosa ami quando ama le cose che crede di amare, quali proiezioni applica all’altro, quali fantasmi corteggia, quali mancanze cerca di ingannare con il ‘troppo pieno’ delle sue ambizioni e delle sue conquiste professionali o relazionali.
Come la seconda moglie Susan, cantante poco dotata e sacrificata al desiderio prima della madre, che la vuole su un palcoscenico anche se non ne ha il talento, e poi del marito, che ne ha fatto l’ennesima sfida ai limiti imposti dal reale della mediocrità umana, anche Kane è specularmente ostaggio di un equivoco sull’autentica natura del suo desiderio, sulla vera meta della sua ricerca di gloria. Che sia, freudianamente, compiacere e contemporaneamente punire la madre che lo ha sottratto al suo slittino per fare di lui un vincente, per fare di un bambino vivo un simulacro delle sue aspirazioni?
Quarto potere insegue il pezzo mancante della vita di un uomo per cui tutto è a portata di mano, ma non la verità su se stesso
È questa la crepa in cui si insinua il film per picconare l’American dream, per realizzare la sua torsione da giallo metafisico – secondo l’eloquente etichetta borgesiana – a indagine sociale sulle illusioni di un Paese tumulato, più che vivificato, dalle sue infinite possibilità di riscatto, strangolato, più che liberato, dalla sua assenza di legami, tra simili e con la Storia, con chi ha preceduto e non ha lasciato niente. ‘Orfano’ è Kane e, così, l’America tutta, terra vergine di eterni inizi, e il suo cinema, nuovo e libero di scrivere e riscrivere il futuro in un patto con lo spettatore per il quale l’autore è, in fondo, de-responsabilizzato e destituito dalla sua investitura demiurgica e quasi divina.
Il pezzo mancante da trovare non è allora soltanto che cosa significhi ‘Rosebud’ (nella versione italiana reso con Rosabella), l’ultima parola pronunciata da Kane prima di morire la cui origine si rivela solo alla fine e solo alla spettatore, ma soprattutto cosa manchi anche all’uomo più potente del mondo per non morire solo e sconfitto in un Paese che gli ha concesso tutto ma non ha trovato risposta alla sua domanda più importante sull’enigma della mancanza originaria, sul mistero di quello strappo che, anziché portarlo a costruire e ricucire, lo ho sospinto di continuo, e spesso inconsapevolmente, verso la distruzione. Il fuoco con cui il film si chiude guida allora lo spettatore verso la risoluzione del mistero più superficiale, ma lascia inevaso quello più profondo e quello che più lo riguarda in prima persona.