Crack: Cocaine, Corruption & Conspiracy: recensione del docu-film Netflix
In Crack: Cocaine, Corruption & Conspiracy il documentarista Stanley Nelson ricostruisce la dilagante ascesa del crack nell’America degli anni 80, tra fallimentari campagne antidroga, corruzioni della polizia e ineguaglianze sociali.
Come abbiamo capito da SanPa, la docu-serie evento sulla comunità di San Patrignano, dietro all’imperante diffondersi di una nuova droga risiedono sempre ragioni sociali e politiche. La nascita, la proliferazione e l’abuso di una sostanza affondano le proprie radici in un disagio profondo che proprio in quel malessere comune trova il suo appiglio perfetto per manifestare la sua voracità. E se in SanPa, l’arrivo della cocaina nelle piazze italiane trovava un gancio nella caduta degli ideali e nella disillusione giovanile, in Crack: Cocaine, Corruption & Conspiracy, l’interessante docu-film Netflix diretto da Stanley Nelson, proprio in quello stesso tormentato inizio degli anni ’80, l’America desolata dei ceti bassi era divisa fra la diffusione dell’ irraggiungibile cocaina e l’arrivo del nuovo crack. Ma nonostante il loro legame chimico (il crack è un derivato dalla cocaina che viene privata dai suoi cristalli tramite lo scioglimento e la combinazione con altre materie), tra le due sostanze il divario non è solamente di tipo scientifico o di modalità di assunzione. Piuttosto la differenza fra di esse risiede nella discrepanza sociale fra ricchi e poveri. Se la cocaina è la droga glamourizzata e socialmente accettata del film Scarface, il crack è l’assuefazione degli invisibili, dei tanti abbandonati da una politica ̶ che inizia da Reagan e finisce con Clinton– che in quel ventennio fu deliberatamente miope.
Crack: Cocaine, Corruption & Conspiracy, attraverso materiale d’archivio, video, interviste ad esperti, storici ed ex spacciatori e tossicodipendenti, getta una luce proprio sul legame fra questa nuova sostanza e la geo-politica reaganiana degli anni 80-90 che condusse all’emarginazione milioni di afroamericani (e non) nelle aree suburbane.
Crack: Cocaine, Corruption & Conspiracy: la promessa reaganiana, il malessere sociale e l’incontrollabile epidemia del virus crack
Il documentario diretto da Nelson (The Black Panthers: Vanguard of the Revolution, Boss: The Black Experience in Business) e diviso in 8 capitoli argomentativi, si apre con le immagini della Convention del Partito dei Repubblicani del 1980 in cui Ronald Reagan, che di lì a poco sarà eletto Presidente, definisce il suo piano economico per aiutare i bianchi della working class disillusa, promettendo ricchezza per tutti attraverso la stimolazione del mercato libero. Una promessa di benessere capitalista che in realtà portò un divario socio-economico di enorme portata. Accanto al costante arricchimento di pochi, nel 1982 infatti si raggiunse il numero più alto di disoccupazione e povertà estrema e, di conseguenza, parallelamente al diffondersi nei club della cocaina, nelle strade e nei quartieri periferici si diffuse una nuova droga che “scricchiolava” sui cucchiai quando veniva sciolta per poi essere inalata tramite bottiglie di plastica o di vetro. Il crack fu una rivoluzione: costava di meno ed era accessibile a chiunque. Il suo effetto immediato dai polmoni al cervello però durava molto meno rispetto alla cocaina e il bisogno di riacciuffare quella sensazione di potenza mista a euforia che si percepiva le prime volte aumentava sempre di più la necessità di assunzione. Il rischio di dipendenza da crack era dunque elevatissimo. Tra il 1982 e il 1990 in America si parlò di epidemia da crack, la diffusione era incontrollabile e incontrollata, fra poliziotti corrotti che guadagnavano dalla collaborazione con spacciatori e tossicodipendenti sempre più invisibili che vagavano come fantasmi nelle periferie di un’America allo sbando.
Criminalizzazione delle donne nere e la fallimentare campagna di Nancy Reagan “Just Say No!”
Dopo un’iniziale invisibilità dell’epidemia, considerata da tutti come un problema delle comunità black periferiche, il crack destò scandalo alla morte del celebre giocatore di basket Len Bias che nel giugno del 1986 fu ritrovato morto a seguito di un’aritmia cardiaca dovuta all’assunzione da cocaina. La droga, sin ora attribuita agli emarginati, arrivò dirompente nelle case degli americani attraverso un circo mediatico che, come racconta molto bene il documentario, distorse la sua reale forma di piaga sociale per assumere le vesti di narrativa alterata volta solo a spaventare il pubblico. La disinformazione viaggiava pari passo con l’allarmante violenza sulle strade delle bande di spacciatori e, nei media, serie tv e video musicali, erano le donne le prime vittime della mal informazione. Alle donne afroamericane venne attribuita la connotazione di madri snaturate che trasmettevano ai nascituri le tracce della propria dipendenza; prostitute pronte a tutto pur di racimolare qualche dollaro, mogli e figlie allo sbando che diventavano prede di studi pseudoscientifici sul legame fra maternità nera e dipendenza. Al conseguente svelamento distorto di una verità scomoda seguì la campagna antidroga voluta fortemente dalla first lady Nancy Reagan che, con ipocrisia fra slogan e pubblicità progresso, tentava di riparare ad un danno sociale ben più intricato e complesso del semplice risolversi attraverso un’ipotetica volontà personale di “dire no” alle droghe.
Scandali politici e il problema dell’incarcerazione di massa degli afroamericani
Da Reagan a Bush fino a Clinton, Crack: Cocaine, Corruption e Conspiracy ricostruisce gli scandali e gli errori legislativi di una politica americana non solo incapace a confinare la dilagante espansione del crack, ma anche attribuendo alla politica interna di quegli anni una complicità con i paesi del Sud America che ogni giorno inviava più o meno segretamente tonnellate di cocaina in tutti gli States. Nel documentario si racconta dello scandalo del sostentamento del gruppo armato dei Contras (i controrivoluzionari nicaraguensi durante la rivoluzione sandinista dal 1979 al 1990) e l’Irangate ovvero lo scandalo del traffico illegale di armi all’Iran dall’85 all’86. Proprio nell’86 fu approvata a velocità record il controverso decreto contro l’abuso di droghe, una legge che prevedeva la stessa pena minima a chi spacciava 5 grammi di crack, considerati alla pari di 500 grammi di cocaina. In quegli anni i condannati afroamericani e ispanici per droga furono milioni. Nonostante la successiva e notoria proporzione che indicava i 2/3 degli dipendenti di crack era in realtà bianco, nella prima metà degli anni novanta soprattutto dopo la militarizzazione della polizia voluta dal governo Clinton, nel 1995 il numero dei detenuti neri condannati a pene legati alla droga aumentò del 707% rispetto al 1985 e a Los Angeles non si contò nemmeno un bianco condannato per detenzione o spaccio di stupefacenti. Un paradosso razziale che riecheggia ancora oggi la situazione delle carceri americane.