TSFF 2021 – Galaktika e Andromedës: recensione del film
Con Galaktika e Andromedës, More Raça, esordiente alla regia in occasione del Trieste Film Festival 2021, racconta il dramma della crisi del lavoro e la poesia che sopravvive nelle relazioni umane, dove nonostante tutto un padre può sorridere e sperare in un futuro per la figlia.
Un padre, una figlia e un futuro incerto. Come molti esordi, anche quello della regista e scrittrice kosovara More Raça, presentato al Trieste Film Festival 2021, è semplice ma ambizioso. Si chiama Galaktica e Andromedës, e racconta di relazioni umane rette anche nelle difficoltà. Parliamo di resilienza, ma prima di tutto della semplice necessità di restare in vita. L’ambiente è l’Albania contemporanea, anche se le scene di povertà di una classe vessata dalla crisi giocano al richiamo di un più ampio cinema europeo, tristemente avvezzo al tema. Il preludio dunque non sorprende: Sheptim (Sunaj Raça) ha superato i cinquant’anni, ha una figlia e non trova lavoro. Si presenta agli sportelli per l’impiego ma riceve sorrisini, sempre che non sia disposto a vendere un rene, per davvero.
Galaktika e Andromedës, nel sorriso di un padre
In una finestra di speranza, che More Raça vira al drammatico, Sheptim si convince di avere trovato un lavoro in Germania. Mentre sorride, accompagnata la figlia Zana a scuola dopo averle dato la bella notizia, una voce alla radio parla di truffa ai danni di migliaia di albanesi in cerca di lavoro: era tutto finto. Sorprendentemente però non è lo sconforto il sentimento che domina Galaktika e Andromedës. Con un eco neorealista, More Raça cerca la poesia nei contatti umani, nei fasci di speranza che cingono un padre e una figlia, ma anche un uomo e una donna. Galaktika e Andromedës si sorregge sull’incontro. Non ci sono controparti in scena, salvo simbolici riferimenti, come la notizia via radio o l’ambiguo trafficante di uomini che gli promette di arrivare a Vienna. I fattori scatenanti di questa situazione non hanno volto, sono una vasta e profonda condizione di vita.
Galaktika e Andromedës, la meta più vicina è impossibile da raggiungere
Numerose le scene in auto. Eppure, fino alla fine, dove si affaccia il miraggio di un futuro, non si va da nessuna parte. La soluzione si vede ma non si raggiunge, e la benzina finisce presto. Tutto torna così alla Galassia di Andromeda, la più vicina alla nostra e in ogni caso solo al servizio dello sguardo. Nonostante tutto, fa sempre capolino un sorriso. Le piccole cose, come rivedere la figlia, chiacchierare del passato, aprono finestre da cui Andromeda sembra più grande. Come per molto cinema realista, se non ci sono cattivi esistono comunque buoni assoluti. In particolare la figlia, che nonostante l’età (un’adolescenza che in altri film sarebbe base di uno scontro) accetta impassibile ogni avvenimento. In una possibile semplificazione delle relazioni una lettura su un’indolenza inevitabile. In assenza di grandi urli, di liti sconsolate, la tragedia si mimetizza in una regia pacata, con una camera a mano che preferisce passeggiare o adagiarsi sul sedile del passeggero.
Pediniamo Sheptim, ci affezioniamo. Capita però di doversi allontanare, e allora More Raça, per la prima volta alle prese con un lungometraggio, sprigiona un’estetica al servizio delle luci, del bello indifferente, come il pappagallo che vive con Sheptim nella roulotte parcheggiata sul retro di una Moschea. Sono interludi che occupano i vuoti della speranza, tra un “Ti ho promesso che avrei sistemato le cose” e un rombo di motore diretto verso l’orizzonte.