TSFF 2021 – Beginning: recensione del film di Dea Kulumbegashvili
Beginning è il folgorante esordio di Dea Kulumbegashvili. Una storia scioccante, ambientata nella patriarcale Georgia e costruita attorno alla comunità dei Testimoni di Geova.
Come guardare un quadro che d’improvviso prende fuoco. È questa l’impressione che colpisce lo spettatore di Beginning, esordio alla regia di Dea Kulumbegashvili presentato in anteprima italiana al Trieste Film Festival 2021 e forte del bollino Cannes che ne certifica la selezione nell’anno in cui la kermesse non si è potuta tenere. Le inquadrature fisse della Kulumbegashvili inseriscono da subito l’esordio nell’alveo di un cinema di sfida. Rifiutato il montaggio forsennato, Beginning si apre su un attacco terroristico in camera fissa. Interno giorno: una comunità di Testimoni di Geova in preghiera. “Abramo era davvero pronto a uccidere il figlio?”, chiede la guida spirituale al pubblico. Noi siamo dietro, in fondo alla stanza, distanti da lui e dalle panche gremite di fedeli, ma vicinissimi alle fiamme che deflagrano quando una molotov entra inaspettata dalla finestra. L’unico stacco segue Yana (Ia Sukhitashvili), piangente sotto un albero. Poi di nuovo la chiesa, questa volta in esterno e avviluppata dalle fiamme.
Beginning si muove così: dall’oggetto all’uomo cerca con insistenza di intensificare gli eventi, soffermandosi a tal punto sull’immagine che quel che appare (un albero impassibile su una donna in lacrime) si frantuma, lasciando allo spettatore l’obbligo di leggere oltre ciò che vede. Un cinema lento, ma più violento dell’aggressione di mille stacchi. Perché Dea Kulumbegashvili non distoglie mai lo sguardo, e quel che accade accade. Ne conviene una regia arrendevole o risoluta, comunque incapace di scappare dalla scena, ma anche un atteggiamento coercitivo, di certo non sempre ben accolto da un pubblico abituato a stacchi puntuali e salvifici. Basta la sezione commenti del Player del Trieste Film Festival per scoprire la posizione di molti riguardo un cinema che, statico, ci smuove contro ogni previsione. Qualcuno non ci sta, ed esce prima, ma il logout è molto meno spettacolare e incisivo di un’uscita polemica dalla sala.
Beginning, obbligati a guardare
Beginning segue le vicende di Yana, costretta al ruolo di moglie, madre e figurante per il marito, capo del gruppo dei Testimoni di Geova. Una condizione vincolata che incontra lo spettatore nella fermezza delle inquadrature. I quadri, tali anche in virtù di un formato 4:3, si fanno gabbie, come la vita di Yana. Allo stesso modo, quando qualcuno esce da un’inquadratura, qualcosa deve sempre rientrare. Un gioco sacrificale, costruito spesso sul movimento in profondità, che trasmette il peso di un luogo in cui la gravità sembra aumentare, allontanando la speranza di una fuga possibile.
Al confine con l’Azerbaigian si incontrano le forme di un patriarcato assoluto. Inoltre, il tema religioso rende insostenibile non rientrare nei confini di una gabbia imposta. L’ottantaquattro percento della popolazione georgiana è infatti di fede cristiano-ortodossa, che per Yana significa che sia nel credo di Stato che in quello famigliare, resterà sempre una minoranza incastonata in obblighi imposti. Che fare però quando è l’esistenza a sgretolarsi? Le fiamme della depressione divampano e obbligano la donna a scegliere una vita consapevole, retta nella difficoltà.
Non è spoiler affermare che Beginning non va come previsto. È quella molotov che entra in scena nei primi minuti a dirci che non muovere la cinepresa è anche un trucco: assuefare lo sguardo finché l’inatteso diventa terrore. In sé, è il sistema dei jump-scares: più silenzio c’è più paura farà l’urlo. E nel finale, lacerante, disperato, a suo modo perfetto, Beginning grida con lo spettatore.
L’esordio di Dea Kulumbegashvili è dunque da appuntare nel taccuino dei buoni auspici. La regista georgiana ha scelto di iniziare sferrando una stoccata alla società georgiana, colpita al cuore di un sistema patriarcale che uccide l’anima di chi cerca se stessa. Eppure, la Kulumbegashvili evita il regionalismo e trova in un’estetica difficile ma audace (figlia delle diverse forme di Von Trier, di Andersson e Akerman) l’occasione per risuonare oltre la catena del Caucaso.