La Napoli di mio padre: recensione del docufilm di Alessia Bottone

La Napoli di mio padre è il docufilm a base d'archivio di Alessia Bottone dedicato alla figura del padre Giuseppe, viaggiatore e sognatore, lente per l'osservazione di chi, come lui, ha il viaggio nel proprio destino.

È un docufilm molto maturo il primo cortometraggio a base d’archivio della giornalista, sceneggiatrice e regista Alessia Bottone, veronese di nascita, ma napoletana di origine, come il titolo, La Napoli di mio padre, suggerisce. Inquadrabile come quei punti di termine / inizio (ci auguriamo) di un percorso, le cosiddette svolte o punti di snodo, esso appare anche anche come una prima sintesi di un processo autoriale ricco e, a suo modo, compiuto.

Ne La Napoli di mio padre troviamo infatti una forte componente autobiografica, ma anche una riflessione arguta e attenta su di essa, elemento che dona al documento tutto la possibilità di legarsi a tematiche sociali attuali e delicate. Senza contare la tecnica utilizzata. Tre poli, questi, rintracciabili nel percorso della Bottone, che nel 2015 aveva pubblicato Papà mi presti i soldi che devo lavorare? e nel 2018 aveva dato prova della sua capacità nell’uso della tecnica del cinema d’archivio rientrando tra i finalisti del Premio Cesare Zavattini (tra l’altro l’ambito in cui questo progetto è stato realizzato). Nel mezzo tanti riconoscimenti per la sua attività giornalistica improntata su temi di forte importanza sociale.

Eppure ciò che rende questo docufilm veramente interessante è la lente attraverso la quale compie il suo viaggio. Quella di una vicenda umana che vede il mondo “al contrario”, che ha vissuto e vive “in direzione ostinata e contraria” rispetto al mondo che la circonda e per questo libera in un eterno ritorno alle proprie radici, sempre con lo sguardo fuori dal finestrino.

Mio padre e Napoli

La Napoli di mio padre, cinematographe.it

Sono due i narratori de La Napoli di mio padre, la prima è quella che ci introduce la figura di Giuseppe, il protagonista di tutto il docufilm. Si tratta della voce bambina di Alessia, figlia incantata di un padre girovago e sognatore, talmente frenetico nella sua voglia di partire da non riuscire a rimanere fermo neanche su un vagone di un treno. “Chi sei papà”, si chiede la voce, incapace di comprendere la mente di un uomo che trovava la pace solamente nella sua continua voglia di perdersi.

Non è mai rimasto nello stesso luogo, Giuseppe, eppure non ha mai veramente lasciato Napoli. La sua Napoli anzi, quella del quartiere Vicaria, almeno stando a quello che racconta il secondo narratore, il papà di Alessia in persona. Attraverso i suoi occhi torniamo a vivere quei luoghi, caratterizzati da un profondo senso di condivisione, dove anche il classismo e le differenze sociali sparivano, come quelli che operava Nanninella, la signora del negozio che vendeva generi alimentari in sovrapprezzo, sconfitti da un ingenuo, ma sincero senso della verità. Lì incontriamo lo scugnizzo Napoleone, che Giuseppe, non a caso, avrebbe seguito fino in capo al mondo; troviamo Don Mario, che metteva casa sua al servizio dei figli delle donne del quartiere, trasformandola in una scuola d’intrattenimento e, soprattutto, facciamo la conoscenza della gente del porto. Voci e volti di un posto incantato, fuori dal tempo e mai dimenticato.

Un idillio per il giovanissimo Giuseppe, interrotto quando la sua famiglia, a causa di un nuovo impiego del padre, cambiò quartiere, scontrandosi con il paradosso di avere una migliore condizione economica e, allo stesso tempo, aver smarrito la propria identità. Per questo a 18 anni Giuseppe si mise il sacco (a pelo) in spalla e partì e anche per questo è sempre tornato alla sua Napoli. Cercandola là fuori, osservandola dal finestrino, in modo da non perderla mai di vista.

L’ultimo giorno al quartiere Vicaria fu l’ultima volta che la madre di Giuseppe sorrise e anche l’ultimo giorno che parlò napoletano. Dal giorno dopo sarebbe diventata “qualcuno”.

“In un mondo in cui tutti voglio essere qualcuno, mi sono concesso il lusso di non essere nessuno.”

La Napoli di mio padre, cinematographe.it

In un viaggio come quello de La Napoli di mio padre, segnato da un sapiente montaggio di immagini prese dall’archivio del Movimento Operaio e Democratico, Istituto Luce e Home Movies (tramite concessione della Cineteca di Bologna), solo una volta si esce dall’epoca passata per riconnettersi al presente. Ovvero quando la Bottone decide di portarci a bordo di una ONG (le immagini stavolta sono della Sea-Watch).

Questo è forse il momento chiave di tutto quanto il docufilm, a cui la regista decide di riservare un’atmosfera di quasi “sacralità”, come se fosse una parentesi grave e solenne, trovando la formula in un cambiamento quasi totale del registro linguistico adottato per tutti i 20 minuti del corto. Ad accompagnare le immagini catturate in mare non c’è infatti quasi nessuna parola né sottofondo musicale. Una sveglia silenziosa, ma assordante, per lo spettatore, dal poetico sogno in cui prende corpo il racconto di papà Giuseppe. Uno strappo stilistico in cui si restituisce alle immagini e alle immagini sole il potere della narrazione (una delle regole sacre del cinema) e modalità intelligente di evidenziare il momento topico in cui si parla della figura del migrante, o, meglio, del viandante. Il racconto di una condizione complessa e sfaccettata, capace di passare da quella sognante e malinconica dei tempi del padre di Alessia a quella disperata e annientante di coloro che scappano oggi, non dalla propria casa, ma dalla propria guerra.

La differenza sta in quello che ci si porta dentro e nel modo in cui il mondo esterno ti accoglie. Ed è in questo concetto che ciò che sembrava un meraviglioso corpo estraneo al sogno si ricongiunge alla piacevole dimensione onirica del resto del corto, proprio nel finale: nell’accettazione di una condivisione e di una uguaglianza, prima umana e poi sociale, c’è la vera libertà.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

2.8