Noir in Festival 2021 – Karnawal: recensione del film con Alfredo Castro
Presentato in concorso al Noir in Festival 2021, Karnawal di Juan Pablo Félix è un thriller atipico dal forte impatto emotivo.
Karnawal, opera prima di Juan Pablo Félix, sembra essere il film più atipico di questa edizione del Noir in Festival. Il regista declina il senso di thriller e di suspense. Porta la storia su più piani tematici, navigando fra loro in piena tranquillità senza mai perdere la bussola. Il nostro è un mondo fragile, pieno di ambiguità e contraddizioni. Félix lo sa bene, e non si perde in facili costruzioni dualistiche, al solito confronto tra bene e male. Perché il loro rapporto non è antitetico, ma ben più complesso e fluido. E così Karnawal ci propone personaggi che non rientrano appieno in una o nell’altra categoria, solo persone, e quindi per natura contradditorie. Non c’è giudizio, non c’è malizia accusatoria nello sguardo della macchina. È un occhio super partes, neutrale, quasi documentarista. La cinepresa si muove elegante e taciturna nell’America Latina, zoomando sulla vita di Cabra, un adolescente con la grande passione per il malambo, la danza argentina.
Un ragazzo, i suoi stivali e un’odissea per l’Argentina
Convivono più anime tematiche in Karnawal. Il film spazia dal racconto di formazione al crime story, dal dramma familiare al viaggio on the road. La storia è quella di Cabra, un ragazzo ribelle e taciturno. Tutto il suo tempo lo dedica alla sua passione, il malambo, la danza dei gauchos. Vive nel nord dell’Argentina, al confine con la Bolivia, insieme alla madre. La sua è una vita fatta di silenzi, di sguardi carichi di furore che gli adulti sembrano ignorare. Lo vedono, ma non lo ascoltano. Il mondo tenta di omologarlo, di imbrigliarlo ad uno stereotipo: quello del ragazzo meno agiato che si dà alla criminalità per sopravvivere. Eppure, non è questa la volontà, una volontà soppressa da quella altrui, da ciò che gli altri vorrebbero che facesse, o non facesse.
È il mondo adulto che non comprende, cieco difronte ai problemi di una generazione così distante e complessa. I genitori di Cabra lo trattano come un adulto, e allo stesso tempo vorrebbero che fosse ancora un bambino. Il ragazzo viene tirato per il guinzaglio, poi lasciato andare e nuovamente strattonato. La sua è una resistenza silenziosa, mentre la rabbia e il furore ribollono nel suo corpo. Il punto di rottura, e l’inizio di un viaggio di emancipazione, arriverà con il padre (Aldredo Castro), soprannominato “El Corto”. Questi esce dal carcere per tre giorni grazie ad un permesso premio, e tenta di riallacciare i rapporti con il figlio e l’ex moglie. Per fare ciò, trascina entrambi in una realtà che pensavano di essersi lasciati alle spalle, fatta di rapine, pallottole e violenza. E ancora una volta ciò che vorrebbe fare Cabra passa in secondo piano, perché lui vorrebbe solo tornare alle sue prove, a quella tanto agognata gara che potrebbe cambiargli la vita per sempre. Allo stesso tempo, però, non vuole abbandonare quel padre assente che in qualche modo idolatra. Il peso dell’adolescenza sulle spalle di un giovane che si è già fatto uomo.
La danza come rifugio, luogo di libertà e crescita
L’opera prima di Juan Pablo Félix ha avuto un periodo di gestazione molto lungo. Ci sono voluti due anni e trecento provini prima di trovare il volto giusto, l’anima adeguata al ruolo di Cabra. Alla fine la parte è stata affidata a Martin Lopez Lucci, un vero ballerino professionista e cinque volte campione del mondo di malambo. L’attesa è stata ripagata, perché il giovane attore ho svolto un ottimo lavoro, se si considera il fatto che questa è la sua prima esperienza. Ha, ovviamente, il fisico giusto, piedi che non hanno bisogno di controparti e di stunt. Oltre al fisic du role appropriato, Lopez Lucci possiede uno sguardo in grado di catturare lo schermo, di graffiare l’immagine.
Un attore non professionista che lavora al fianco di uno più navigato come Alfredo Castro, attore feticcio del talentuoso regista cileno Pablo Larrain. Non a caso le scene tra i due sono le più riuscite e d’impatto. Tra Castro e Lopez Lucci sembra esserci un’ottima chimica, dove il primo riesce a soppesare le lacune del secondo. Karnawal è infatti un film di prime volte, laddove però l’impegno e la dedizione sovrastano l’inesperienza. La regia di Félix è in alcuni tratti acerba, come si riscontra nelle scene “d’azione”, dove la camera trova incertezza e gli stunt non convincono appieno. Tutto questo viene però perdonato, perché quando il racconto torna a concentrarsi sull’intimità di questa disfunzionale famiglia, il regista ritrova calma e sicurezza. Nonché nei momenti di danza, dove il silenzio lascia spazio al suono fragoroso e ritmico del tacco degli stivali, di battere sul legno duro. Non è rumore, è musica. Non è disordine, ma armonia. Le regole del mondo esterno non valgono più, rimane solo Cabra. Il giovane sovrasta simbolicamente il silenzio della negligenza con suoi passi, il suo corpo. La danza si fa grido silente, fino a diventare un tuono fragoroso nella scena finale. La rottura, il furore si libera delle catene e arriva a noi come un’onda d’urto. L’urlo di cabra è un’onda d’urto, un impulso elettromagnetico che spegne ogni dispositivo. E così facendo ottiene quell’attenzione fin troppo agognata.
Karnawal: un thriller atipico realizzato con grande passione
Karnawal non è esente da difetti, di piccole imperfezioni dovute alla poca esperienza. Eppure, riesce a coinvolgere, a farsi seguire con forte trascinamento. Questo perché la passione dietro al film riesce a ovviare ogni problema. Il regista ha affermato che in giovinezza la danza era tutto per lui; una droga, un’ossessione, un modo per allontanarsi e allo stesso tempo ritrovarsi. Tutto ciò lo ha voluto portare nella storia, e dobbiamo dire che c’è riuscito pienamente. Karnawal ha vari punti di lettura. Seguendo una metafora dolciaria, il film è una torta perfettamente stratifica, leggermente informe nella glassatura e sbilanciata nella crema, ma al palato un’esplosione di sapori. Inizia con il realismo sociale, per poi passare ad un thriller atipico, dove la suspense non è finalizzata al disvelamento di un mistero, ma all’attesa di una scelta, quella di Cabra. Invece di attendere il nome dell’assassino, ci preoccupiamo quale strada il giovane protagonista intraprenderà da solo. I gesti e gli sguardi sembrano contare più delle vane parole, come sempre quando mettiamo a confronto il mondo adulto con quello giovanile. E allora il film arriva là dove deve arrivare, senza perdersi in picchi musicali incoraggiatori di false emozioni, all’esaltazione forzata della scena. L’emozione arriva senza l’aiuto di facili strumenti, senza l’aiuto dell’auto-tune.