Foxcatcher: recensione
Diretto da Bennett Miller, regista candidato al premio Oscar nel 2006 per Capote, Foxcatcher narra i fatti veri (e sconcertanti) attorno alla creazione dell’omonima squadra di wrestling americana ad opera del multimilionario John E. du Pont, qui interpretato da un irriconoscibile Steve Carell.
Quello che in apparenza potrebbe sembrare “solo” un altro film su una disciplina sportiva – genere che da qualche anno a questa parte sta facendo davvero scintille in quel di Hollywood – si distanzia tuttavia fin da principio dalla categoria di appartenenza, merito soprattutto una direzione registica che porta suono e inquadrature preponderanti di fronte al pubblico. E questo perché Foxcatcher presenta caratteristiche da dramma psicologico, pur nascondendole – alle volte fin troppo bene – dietro mosse fisiche e una sceneggiatura che sfugge e si dilegua tra le mani, tanto che per la maggior parte del film lo spettatore rimane con un gran punto interrogativo riguardo a quale poi sia l’intento ultimo della storia. È mostrare un fantomatico dream team che nelle intenzioni avrebbe dovuto vincere le Olimpiadi di Seoul 1988? O è piuttosto un tentativo di analisi interiore dei personaggi e – per estensione – delle loro relazioni? A quasi ventiquattro ore di distanza dalla visione ancora non si trova una risposta che soddisfi completamente, forse perché in realtà è un po’ una commistione delle due.
Tuttavia, una delle maggiori qualità del film, come notato in apertura, risiede nel sapiente e scaltro uso del suono, vero e proprio protagonista invisibile (ma non muto) in parecchi faccia a faccia tra i tre personaggi principali. In una mossa non sfruttata abbastanza dal cinema contemporaneo ma che offre incredibili possibilità espressive come dimostrato qui da Miller, spesso è il silenzio che segue parole dure o discorsi incitatori, in un bellissimo effetto di sottolineatura che amplifica il significato letterario e riesce a permeare fino in fondo l’anima dello spettatore. Allo stesso modo, il regista si dimostra maestro nell’uso della macchina da presa, in particolare con l’utilizzo mai ridondante della profondità di campo (ed interessanti in questo senso sono le disposizioni quasi ad x degli attori) e dello sfondo, un altro eccellente comprimario, che con i suoi paesaggi che si dispiegano a vista d’occhio, fino all’orizzonte e anche di più, aggiunge una dimensione quasi onirica e a tratti selvaggia alla vicenda trattata (emblematico poi il richiamo, forte e ripetuto, alla guerra civile Americana e ai suoi atti di eroismo perpetrati da gente “comune” per un alto bene – quello della patria, rapportato al presente della storia, e quindi alla Guerra Fredda ancora in corso).
Ma la forza di questo film sta soprattutto nella grande prova attoriale dell’intero cast, che non a caso fin da subito ha cominciato (e sta continuando) a ricevere plausi, nominations e premi in tutto il mondo. A partire da Channing Tatum nel ruolo titolare di Mark Schultz, faccia (e muscoli) da duro per nascondere i mai esplicitati ma evidenti problemi psicologici, fino ad arrivare al sopracitato Steve Carell, perturbante e mai totalmente decifrabile nelle sue espressioni e atteggiamenti, passando per Mark Ruffalo nei panni di David Schultz, l’unico personaggio davvero stabile e piacevole di tutto il film, nei cui occhi si riscontra sempre e facilmente l’amore paterno nei confronti del wrestler più giovane.
Bennett Miller tesse le fila (a detta di un particolarmente arrabbiato Mark Schultz assai) romanzate di questa torbida vicenda con esperienza registica ed un occhio di riguardo al sottotesto silenzioso, ma nel farlo a volte dimentica una componente essenziale del mezzo filmico, le emozioni, spesso non esplicitate quanto avrebbero meritato, per un risultato finale che sciocca e fredda, ma senza compassione.