Il sacrificio del cervo sacro: spiegazione e significato del film
Il sacrificio del cervo sacro è un thriller psicologico che ci porta in un orrorifico viaggio all'interno di una rappresentazione antropologica che porta al centro il perturbante.
Yorgos Lanthimos è padre di un cinema feroce e disilluso, di un’umanità crudele e violenta, quasi incapace di provare sentimenti, è creatore di storie fantascientifiche, fiabe nere che stupiscono e spaventano. Il regista greco fa un cinema di futuri prossimi, di luoghi indefiniti, di asperità tanto acuminate da ferire, da penetrare nelle carni, di laboratori sociali, di cavie sotto una spietata lente d’ingrandimento. La sua è un’arte che mostra figure che tentano di chiudere fuori dolore, paura, morte. Con rigore e freddezza, al limite del “patologico”, osserva, penetrandone la “sacralità”, la famiglia, le ossessioni, le pulsioni, le fobie dei personaggi. Questo nucleo, tanto caro a molte culture, non è più il luogo della pace e della serenità, dove si impara per poi spiccare il volo, ma quello dove si rinchiude e si viene rinchiusi, in cui si è costretti a scegliere chi tra i propri cari sacrificare. Il regista greco ha trattato questi temi già in Kynodontas/Dogtooth e lo fa nuovamente ne Il sacrificio del cervo sacro (2017), film internazionale – presentato in concorso al Festival di Cannes 2017 e vincitore del Premio alla Miglior Sceneggiatura – in cui un padre di famiglia si trova immerso in una tragedia crudelissima e disumana che riguarda i suoi figli e sua moglie.
Il sacrificio del cervo sacro: una tragedia greca in un mondo moderno
Il sacrificio del cervo sacro si apre con un cuore che pulsa e con l’austerità implacabile dello Stabat Mater di Schubert che ci conduce nella crisi, intesa sia come fase di instabilità e di rischio, ma anche in senso etimologico come la scelta che il dottor Steven (Colin Farrell) dovrà compiere. Steven, un cardiochirurgo talmente sicuro di sé da essere arrogante, da ubriaco, ha ucciso un paziente durante un’operazione. Per espiare questa colpa che grava su di lui, incontra il figlio dell’uomo deceduto, ne diventa amico comprandolo con doni e appuntamenti; quel giovane si chiama Martin (Barry Keoghan), un ragazzo particolare che sta spesso da solo e prova per quest’uomo un attaccamento ossessivo. Per Steven Martin è tranquillo e inoffensivo tanto da portarlo a cena a casa propria per fargli conoscere sua moglie, un’oftalmologa, Anna (Nicole Kidman) e figli, l’adolescente Kim (Raffey Cassidy) e il piccolo Bob (Sunny Suljic). Quella che il medico ha nei confronti del giovane è una condiscendenza raffreddata, tipica dei rapporti tra i protagonisti dei film di Lanthimos: nessuno prova niente, nessuno sente niente, davvero, si comportano con gli altri in maniera talmente formale da sembrare robotica. I dialoghi sono sulle note della cortesia asettica e ciò che colpisce è la perfezione che Steven e Anna vogliono mostrare: i bei capelli, la bravura a scuola, la casa sempre in ordine e perfetta. Si tratta però solo di maschere che celano un vuoto pauroso, ferite sottratte alla vista.
C’è una tragica anestesia dei sentimenti che porta come sempre nel cinema dell’autore greco a narrare con tono distaccato le storie più violente e crude mai immaginate: straccia precetti importanti del vivere umano, crea trappole metaforiche di cui lo spettatore è affascinato e turbato osservatore, cavalca il disagio dell’individuo. Distrugge il confine labile tra realtà e messa in scena come in Kinetta, trova un’innaturale soluzione alla morte come in Alps, racconta la solitudine nel modo più lancinante possibile come in Lobster. Quello di Il sacrificio del cervo sacro è il suo ennesimo universo distopico in cui gli esseri umani sembrano capaci esclusivamente di replicare gesti, interpretare ruoli. Si pensi al rito sessuale, chiamato “anestesia generale”, in cui Anna per eccitare il coniuge finge di essere tramortita nel letto, non c’è passione, non c’è trasporto.
Si arriva ad un punto cruciale: Martin in realtà sa tutto, è a conoscenza dell’identità di Steven, è consapevole che il padre non è morto a causa di un problema fisico. Il ragazzo fa di tutto per inglobare il chirurgo nella sua famiglia, lo porta a casa, lo invita ad unirsi alla madre (“Mia madre è attratta da te. Lei ha un bel corpo”), ma il suo compito è molto più importante: vendicarsi. Dopo l’ennesimo rifiuto il giovane svela il gioco grottesco in cui ha attirato il medico: uno alla volta ogni componente della sua famiglia percorrerà una passione di 4 stadi fino ad arrivare alla morte; sarà solo lui a poter fermare la tragedia annunciata scegliendo chi sacrificare per pagare la morte con un’altra morte.
Il sacrificio del cervo sacro è una rappresentazione mitico-antropologica del concetto di “capro espiatorio”: i figli del chirurgo si ammalano all’improvviso, senza spiegazione, senza che i medici trovino la causa. Martin sembra solo per metà umano – Kim è l’unica che vede Martin fuori dalla finestra dell’ospedale -, è talmente pericoloso da provocare una crisi nella famiglia di Steven – riesce a far innamorare la figlia del medico, moglie e marito si scontrano. Il ragazzo per loro è una sorta di pestilenza biblica che mina la solidità del nucleo e la sua stessa sopravvivenza per arrivare a una giustizia sommaria e arbitraria.
La religione qui è presente ma in maniera distorta o come rappresentazione per immagine del testo biblico: Anna come una moderna Maddalena si inginocchia e bacia i piedi di Martin, rapito e tenuto in ostaggio da Steven; troneggia nello studio del preside della scuola dei due ragazzi una riproduzione Gesù che cammina sulle acque di Tintoretto; lo stesso principio della Passione, i figli che lacrimano sangue sono simbolo di un mondo ben definito.
Steven e Martin, tra colpa e vendetta
Lanthimos porta e ridisegna la tragedia greca ai giorni nostri, traduce l’Ifigenia in Aulide di Euripide in chiave moderna, affronta i temi tipici del mondo classico, l’ereditarietà della colpa e la vendetta. Nell’opera euripidea il sacrificio da parte del padre viene interrotto da una cerva sacrificale inviata dalla dea Artemide – come accade nell’episodio biblico del sacrificio di Isacco per mano di Abramo –, qui però non può accadere perché non ci sono divinità salvifiche. Questa famiglia vuole dimostrare che più in alto si è, più rovinosa è la caduta.
Si butta il medico in un agone da cui è impossibile salvarsi, all’improvviso si trova di fronte ad una scelta dolorosa e ingiusta: chi tra la moglie e i due figli merita davvero di vivere? I minuti scorrono e gravano come macigni, qui però non c’è Agamennone, c’è Steven, non c’è Oreste, c’è solo un uomo che tenta di perdere tempo, di ribaltare le cose, di curare qualcosa di incurabile, di prendersi gioco di un ragazzino spaventoso che ha tutto nelle sue mani. Si mette in scena il sovvertimento della norma, annullando lo status quo, e nella mani di Lanthimos questa è una tragedia ancora più disturbante del testo euripideo. Tra arti “morti”, inedia, occhi che sanguinano, il corpo – tema su cui l’autore spesso disquisisce – esprime con forza e brutalità la caduta libera dei figli di Steven verso il fine vita mentre il padre continua a vivere in una sorta di post-umanità. Anch’egli in una passione a stadi, seguita con sguardo freddo dal cineasta, arriva disumanamente a stilare una lista di qualità della prole per fare la scelta migliore. Il tempo scorre inesorabile. L’uomo di Lanthimos è svuotato di tutto, impoverito, azzerato nella sua pietas, altro pilastro del mondo classico, e sta proprio qui il punto, il dramma amplificato: Steven non è un eroe, non è dio, la società a cui appartiene è diversa – in questo caso, si parla di quella americana ancor più lontana dalla cultura greca. Diverso è l’atteggiamento di Anna che gli rinfaccia di non averle detto prima del padre di Martin, poi del ricatto a cui il giovane lo ha sottoposto, tenta di opporsi al Fato, altro elemento che torna nei miti e nelle tragedie, cercando di combattere retropensieri e arroganza di Steven. Anna vuole conoscere la verità – tanto da masturbare in auto l’assistente del marito per sapere cosa sa – e lui intanto si trascina nel mondo.
ISteven, un padre incapace di agire
“O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza!”
Queste parole, del VII salmo della Bibbia, presenti ne Il sacrificio del cervo sacro sono fondamentali per comprendere il senso della sua storia, ci vogliono ricordare che per quel dio misericordioso e infinitamente buono non c’è posto, e lo capiamo ancor di più nel finale che in modo beffardo e amaro mette la firma su una parabola di dolore e nichilismo.
Steven è un padre inetto, incapace di assumersi le proprie responsabilità, e di prendere una decisione. Viene però trattato dagli altri come una sorta di divinità pur senza averne la statura. Kim e Bob si trascinano sul pavimento come due invertebrati, sperando di comprare il favore del Padre per essere risparmiati: Bob si taglia i capelli, vuole andare a bagnare i fiori cose che Steven ha sempre preteso da lui, la ragazza recita il monologo di Ifigenia – infatti ad un certo punto sembra volersi sacrificare -, testo a cui aveva lavorato a scuola e che le è valso un’ottima valutazione.
“e a mia volta, sospesa al tuo collo che ora tocco con la mano: ed io t’accoglierò nella mia casa, vecchio, con dolci abbracci e ti ricambierò la fatica d’avermi cresciuta. Io di questo conservo memoria, tu l’hai perduta e vuoi darmi la morte”
Questa è una famiglia che si scompone e sfalda; nessuno dei componenti ragiona come un essere umano che ama l’altro ma come uno che vuole salvare la pelle e ciascuno parla all’altro con crudeltà e cattiveria. Kim chiede al fratello se quando morirà lei potrà avere il suo mp3, Anna incoraggia il marito a uccidere uno dei figli per salvare l’altro visto che potranno concepire ancora. C’è un’affinità evidente con Kinodontas ma lì il padre pur biecamente e violentemente agisce: cresce figli con false Idee (il gatto è l’animale pericoloso, da temere perché mangia il cane), li immobilizza in una prigionia intellettuale oltre che fisica (potranno uscire solo quando cadranno loro i canini che li rendono più simili ad animali che a giovani adulti), si erge a Dio che insegna, dice, ordina – si ripercuote sull’intero nucleo familiare che vive in una borghese, asettica dimora in cui tutto è artificiosamente perfetto – ma lo fa per proteggerli da un mondo che crede violento e spaventoso. Qui invece Steven sceglie di affidarsi a qualunque cosa pur di non esporsi. Una scena spietata, una rivisitazione di Il cacciatore di Cimino in cui si sovverte l’essenza stessa della vita: un padre deve uccidere chi più dovrebbe amare. Moglie e figli sono legati e incappucciati, ognuno seduto abbastanza lontano dall’altro e Steven, con un passamontagna nero calato sugli occhi, gira su se stesso fino a smarrire l’orientamento, imbracciando un fucile; è il Fato a dover premere il grilletto e questo fa comprendere l’inevitabile inadeguatezza della contemporaneità rispetto al Mito.
Il sacrificio del cervo sacro: il racconto di un inferno spietato tra letargia e ineluttabilità
Lanthimos sostiene ogni cosa con una regia e una scrittura rigorosissime che ricordano la geometria severa di Kubrick: le corsie dell’ospedale in cui Steven vaga e Bob striscia, sembrano i corridoi dell’Hotel di Shining, la costruzione del rapporto tra Steven e Anna ricorda quello dei coniugi di Eyes Wide Shut, le riunioni in ospedale sono come i congressi spaziali di 2001: Odissea nello spazio. Il regista compone una nenia letargica che sembra non avere mai fine – Steven piange disperato solo una volta nel film e poi sembra in balia di un asettico maleficio – in cui si può rivedere quella di Melancholia (Von Trier, 2011), una giostra violenta della freddezza che porta inevitabilmente ad una fine già scritta come accade anche nella versione di Haneke di Funny Games dove in una meravigliosa casa borghese arrivano dei drughi pronti a uccidere.
Il sacrificio del cervo sacro: un’opera ipnotica e disturbante
Lo spettatore prende atto di un mondo claustrofobico pieno di dolore, ferite purulente, cattiveria endemica e lo fa partecipando in maniera catartica ad un dramma disumano; il dolore c’è, per noi, ma sembra essere distante anni luce da Steven.
Il sacrificio del cervo sacro è un thriller psicologico che ci porta in un orrorifico viaggio all’interno di una rappresentazione antropologica che porta al centro il perturbante. Lanthimos lascia tutto e tutti senza tregua in una danza del rimorso in cui non ci si pente però mai fino il fondo – il finale del film ce lo dimostra – dando la sensazione che lui, demiurgo di tale trista storia, c’è, è presente, assistendo alla tragedia da un punto lontano ma non abbastanza da non poterla guardare. Si tratta di un racconto cupo durante il quale si vorrebbe recuperare una spiritualità persa, nonostante paradossalmente sia elemento cardine con riferimenti musicali – lo Stabat Mater, il coro d’apertura della Passione secondo San Giovanni di Bach con cui si conclude il film – e scene che ricordano parabole. Il sacrificio di Lanthimos è un’opera ipnotica e disturbante che mira a colpire lo spettatore, a lasciarlo disarmato e spaventato – perché il Male è ineluttabile – con una regia che disorienta con plongée (Anna e Bob che scendono dalle scale e lui improvvisamente cade a terra), pedinamenti, zoomate, con una poetica che schiaccia i personaggi e così disorienta chi guarda.