The Outpost: recensione del war movie basato su una storia vera
Su Sky Cinema è andato in onda The Outpost, il film di Rod Lurie con Orlando Bloom e Scott Eastwood basato sulla vera battaglia di Kamdesh.
È una formula complessa quella del war movie, un genere in continua evoluzione; come un serpente che cambia la muta. Negli anni si è tendenzialmente abbandonato quel patriottismo estremo, quel cameratismo da spogliatoio che ha caratterizzato le produzioni passate. Il cinema è andato di pari passo con la società, e la sua visione della guerra. Dopo i vari scandali sulle torture e le reali motivazioni dell’intervento militare in Afghanistan, l’occhio d’indagine ha spostato il suo baricentro. L’attenzione non è più rivolta al patriottismo romanzato, ma alla realtà di quelle storie e alle zone grigie di ambiguità. Non solo, al centro del racconto ci sono uomini e donne che lì hanno combattuto, o meglio sono sopravvissuti. Ed è quest’ultima la vera missione dei cinquantaquattro soldati della base di Kamdesh: sopravvivere. Rod Lurie con il suo The Outpost percorre la via del realismo quasi documentario, ci porta dentro le barricate, alla quotidiana routine dei soldati. Il film è una vera sorpresa, per quanto non sia esente da errori, come la sua durata di due ore.
Inizialmente programmato per l’uscita in sala nel 2020, The Outpost è stato poi rilasciato On Demand e in alcuni cinema statunitensi a causa del Covid-19. Il film è arrivato ora in Italia, ed è disponibile su Sky Cinema On Demand. Tra le sue fila troviamo Orlando Bloom, Scott Eastwood e Caleb Landry Jones. Ma, al di là delle sue figure di spicco, l’opera di Lurie si contraddistingue per la sua coralità. La macchina da presa segue passo per passo ogni personaggio, delineandone aspetti e caratteristiche. La battaglia di Kamdesh è una di quelle storie che non è entrata di petto nel discorso pubblico, è rimasta nelle retrovie del discorso pubblico (almeno qui da noi), finché il giornalista della CNN Jake Tapper non ha scritto il romanzo da cui è stato tratto il film: The Outpost: An Untold Story of American Valor.
The Outpost: la battaglia di Kamdesh e i risvolti della guerra
Siamo nel 2009, all’epoca dell’amministrazione Obama e di un nuovo aumento delle truppe in Afghanistan. Anni i cui la guerra in medio-oriente aveva riacquistato priorità tra gli obiettivi statunitensi. The Outpost segue le vicende dei soldati del campo di Kamdesh, una base militare collocata all’interno di una gola di montagna e difficilmente difendibile. Il sergente Clint Romesha (Scott Eastwood), il capitano Keating (Orlando Bloom), lo specialista Carter (Caleb Landry Jones) e le truppe sul posto dovranno vedersela con un paesaggio e una popolazione ostile, avversa allo straniero. I gruppi talebani portano avanti quello che potrebbe essere definito un vero e proprio assedio lungo anni. Gli attacchi sporadici si trasformeranno ben presto in una vera battaglia, e per i soldati diventerà un’impresa. Scarsità di munizioni, di supporto e di una buona difesa li condurrà alla tragica battaglia che ha visto molti, troppi, caduti.
L’incipit del film ci porta dentro la realtà dei fatti: “Nel 2006 l’esercito americano istituì una serie di avamposti per promuovere la resistenza contro la guerriglia nel nord dell’Afghanistan. L’intento era quello di instaurare rapporti con i locali e fermare il traffico di armi e guerriglieri talebano del Pakistan. Uno di questi fu il PRT Kamdesh. Costruito in una valle isolata, completamente circondata dai monti Hindu Kush”. Un intervento, quasi, di polizia militare per l’arresto del mercato della guerra in un luogo indifendibile. I problemi del campo vengono delineati fin dall’inizio, come la difficoltà di portare avanti le trattative con i capi locali, che non sembrano far distinzione tra americani e russi. I protagonisti ne sono ben consci, e per loro è una sfida quotidiana. La sceneggiatura non pone mai il loro intento sulla base del giusto o sbagliato, del morire per la patria. È il loro difficilissimo lavoro, “non gli interessano i soldi” perché la morte è dietro l’angolo. La loro mente va alle famiglie a casa, a genitori e figli. È a loro che devono fedeltà, quanto al compagno d’armi. A tal proposito, il personaggio più interessante di The Outpost si rivela essere quello interpretato da Caleb Landry Jones. Inizialmente raffigurato come un outsiders con problemi di rabbia, si dimostrerà il soldato più complesso. Il suo Ty Michael Carter è un uomo che osserva, mette in dubbio scelte, ma quando arriva l’ora di agire non si tira indietro. Ferito e impaurito, porta avanti il suo lavoro, salvando la vita di quei commilitoni che inizialmente non riteneva fratelli. Ed è proprio il suo lo sguardo finale, il trauma di una guerra che non ha scelto, ma per cui ha combattuto. Le sue sono le parole di un uomo che è stato all’inferno, e di cui vivrà gli incubi per molto tempo.
Una regia attenta al senso del racconto; tra apertura e chiusura degli spazi
Si parlava di errori, primo fra i quali la durata. Due ore no stop di spari, mitra, mortai e imprecazioni. The Outpost poggia su una dilatazione del racconto eccessiva. Un minutaggio inferiore e un montaggio più serrato non avrebbero leso al film, anzi. Oltre a ciò, alcuni momenti vantano la solita retorica di genere. Eppure, al di là di questo, il film si dimostra un’ottima visione. Rod Lurie riprende la battaglia in modo interessante, giocando soprattutto sulla chiusura degli spazi. Gabbie multiple intrappolano i protagonisti. In primis la base, poi i mezzi di trasporto, muri ed edifici. Non ci sono spazi aperti, ma visi deformati dalla paura e dalla rabbia. Campi stretti e primi piani rendono la storia claustrofobica, come d’altronde è stata la battaglia per chi l’ha vissuta. Soltanto alla fine, a battaglia finita, gli spazi si aprono. Qui, Lurie, opta per panoramiche e riprese col drone.
Una scelta intelligente, e soprattutto funzionale al racconto. Inoltre, il paesaggio naturale riscostruito in Bulgaria accentua la portata realistica del film, che ha sostituito la spettacolarizzazione della guerra con la sopravvivenza. The Outpost è quasi un ibrido tra il vecchio e il nuovo cinema di guerra. La produzione tiene il piede in due scarpe, un modo questo di accontentare diverse fasce di pubblico. Da quello che vuole la guerra per il piacere dell’adrenalina, a quello più sofisticato che richiede un’analisi sociale di quello che avviene. Insomma, un prodotto alla portata di tutti, nonché un memoriale a chi è caduto in battaglia.