Oldboy (2003): recensione del film cult di Park Chan-wook
Ritorna al cinema dopo 16 anni, in versione restaurata, il capolavoro coreano amato da Quentin Tarantino. Un tuffo negli inferi della psiche umana, tra inutilità della vendetta e necessità di una catarsi.
La storia del cinema è intrisa di storie di paziente rivalsa e fulminea rappresaglia, con connotazioni politiche controverse (basti pensare al “revanscismo” di Clint Eastwood e di Charles Bronson negli anni ’70) e catartiche (il sottogenere Rape & Revenge, esploso in questi ultimi anni). La vendetta, semplificando all’estremo, è uno strumento e un grimaldello per studiare e comprendere la realtà, ed è alquanto curioso pensare come i revenge movie siano diventati di moda da una generazione a questa parte. Prima era materiale da serie B, del tutto evitabile; ora, coincide spesso con la massima espressione del cinema d’autore.
Il merito più importante di questa evoluzione è da assegnare al cinema asiatico contemporaneo, con una particolare preferenza per le produzioni coreane (ovviamente del Sud, del Nord non è dato sapere). La presenza di Oldboy a Cannes 2004 è stata un evento epocale, con corredo di allori (il Gran Premio della Giuria) e affermazioni estatiche del presidente Quentin Tarantino (“è il film che avrei voluto girare”). I festival del vecchio continente, allora, diedero al spinta decisiva per lo sdoganamento della Nuova Onda coreana, rappresentata essenzialmente da Park Chan-wook e da Kim Ki-duk. Autori tra loro diversissimi, malvisti in patria e idolatrati in Europa.
Oldboy: ubriaco d’odio e di vendetta
Oldboy (2003), secondo capitolo della cosiddetta Trilogia della vendetta firmata da Park (gli altri due titoli sono Mr. Vendetta, 2002, e Lady Vendetta, 2005), è un continuo choc visivo, fin dalle sue prime battute. Per il protagonista Oh Dae-su non proviamo alcuna empatia: lo vediamo in carcere per ubriachezza molesta, assistiamo al pagamento della sua cauzione e poi, d’improvviso, alla sua sparizione. Quando l’uomo riprende coscienza si ritrova in quella che sembra una stanza d’albergo, con un letto, una scrivania, una TV, un piccolo bagno. Col personaggio principale, che invaderà lo schermo per quasi due ore, non entriamo in sintonia; l’osservazione è obiettiva e asettica, la regia non chiede compassione.
È uno studio sociologico, Oldboy, e tale rimane anche quando scopriamo che Dae-su in quella stanza ci resterà per 15 anni, senza conoscere il perché della sua prigionia e senza incontrare mai nessun essere umano. In quel lunghissimo lasso di tempo avrà modo di disumanizzarsi e perdere coscienza di sé e, una volta inspiegabilmente liberato, iniziare una spietata caccia per vendicarsi del sopruso subito. Una ricerca che inizia dal gusto, e dall’unico cibo (ravioli) che gli è stato proposto per tre lustri: la chiave per rintracciare i suoi rapitori è scandagliare i ristoranti della città fino a trovare quello che gli forniva i pasti.
“Impossibile trovare la risposta giusta, se la domanda di partenza è errata”
Cercando il più possibile di lasciare intatti i colpi di scena della pellicola (nonostante siano ormai passati quasi 20 anni e nonostante l’aura mitica che ha reso Oldboy un’opera di totale culto mondiale), basti sottolineare che dal mistero si passa alla tragedia classica: il raffinato lavoro di cesello di Park rievoca la letteratura greca e gioca con Kafka, mixando post-cinema e ipermodernità estetica coi conflitti primordiali che agitano e tormentano l’animo umano. Pensiamo alla scena del carrello orizzontale insanguinato, quando Dae-su armato di martello sgomina in una coreografia mortifera e mortale un gruppo apparentemente infinito di nemici senza volto e senza nome: un virtuosismo sporco, rozzo, che contiene tutto il senso del film.
Perché la nuova libertà di Dae-su non è altro che una nuova prigione, visto che la sua vendetta in verità è conseguenza dell’altra vendetta di chi l’ha rapito e tenuto segregato. Il protagonista ci metterà un po’ a capirlo: la questione non riguarda tanto i motivi del sequestro, quanto la ragione della sua scarcerazione. Un balletto macabro e inutile, come precisa Park: “Quello della vendetta è un tema che mi interessa perché vendicarsi è un comportamento che non ha alcun senso, che non riporta in vita le persone che non ci sono più, eppure che spesso non si può evitare. Chi si vendica è consapevole del fatto che la sua vendetta non porterà a nulla, ma non è capace di fermarsi. Questa vacuità dell’azione è un tema che mi affascina molto dal punto di vista psicologico”.
Park, Kim, Bong… e la Nouvelle Vague coreana
Rivisto oggi, Oldboy – che torna in sala in versione restaurata, rimasterizzato in 4K – mantiene intatto il suo potere sovversivo e, anzi, acquista nuovo valore alla luce del trionfo agli Oscar di Parasite di Bong Joon-ho. In fondo, si tratta di una resa incondizionata da parte dell’America (e dell’Occidente): l’Asia non è solo e non è più quel mondo esotico da apprezzare in modo laterale e parziale, ma è vicinissima e stabilisce nuovi modelli culturali e narrativi, riuscendo a creare da zero storie e contenuti laddove la grande fabbrica dei sogni resta sempre più spesso imbrigliata nelle derive biografiche, nei remake / spinoff e nelle vicende “tratte da” vicende letterarie.
Non è certo un caso che il rifacimento made in Usa di Oldboy (Oldboy, Spike Lee, 2013) sia stato un totale fiasco: non corrispondeva a nessuna urgenza, era un puro esercizio di stile. Il cinema di Park Chan-wook, Kim Ki-duk e Bong Joon-ho (e in generale quello della hallyu, la New Wave che ha portato a un incremento della popolarità globale della Sud Corea), invece, risponde a un medesimo humus artistico, raccontando essenzialmente il dilemma irrisolvibile di un Paese diviso. Il trait d’union è rappresentato dalla ricerca e dalla perdita d’identità, dall’incapacità di identificarsi e riconoscersi in una nazione – in una realtà – che genera mostri e brutalità, abbandonando il singolo a se stesso e ai suoi demoni.
Oldboy è nelle sale cinematografiche dal 9 giugno 2021 in versione restaurata, Lucky Red.