Intervista a Francesco Del Grosso su In Prima Linea: “ogni foto non scattata è un torto”

Arriva al cinema dal 10 giugno 2021 In Prima Linea, lo splendido documentario firmato da Francesco Del Grosso e Matteo Balsamo. Uno sguardo originale, umano e inedito alla scoperta della figura del fotoreporter di guerra.

Dopo un fitto (e felice) percorso per festival in giro il mondo, coronato dalla vittoria alll’International Filmmaker Festival di New York, In Prima Linea di Francesco Del Grosso e Matteo Balsamo fa finalmente il suo debutto nelle sale italiane il 10 giugno, distribuito da Trent Film.

Il documentario affronta l’immaginario intorno alla figura del fotoreporter di guerra, scegliendo una via di indagine mai percorsa prima d’ora: quella che si concentra sulla messa a fuoco dell’uomo dietro l’obiettivo e, di conseguenza, delle storie dietro le foto che scatta. Un viaggio per cui sono stati riuniti 13 professionisti del settore (diversi per età, metodologia, estrazione sociale e sesso), concepito come un flusso di coscienza emotivo, metaforicamente nato nella camera oscura per arrivare al dialogo tra autore e foto, valutata non solo nella sua natura estetica, ma per ciò che ha significato per colui che l’ha scattata. Un ribaltamento della prospettiva in grado di aprire le porte ad un mondo completamente inesplorato.

Un film ambizioso, commovente, intelligente e inedito, in grado di mettere al centro l’anima di coloro che di solito sono i narratori delle storie e non i diretti interessati: “In Prima Linea è un racconto privo di tecnicismi, attraverso il quale abbiamo provato a raccontare il difficile mestiere del fotoreporter, concentrandoci sugli aspetti chiave, ma soprattutto sulla componete umana e non solo professionale. Il che contribuisce a renderlo fruibile e comprensibile ad un pubblico più ampio. Dopotutto si racconta l’essenza di uomini e donne attraverso concetti universali, ma anche emozioni, paure, dubbi e cicatrici, visibili e non. È un film non geolocalizzato, ma pensato per il mercato internazionale, perché capace di parlare indistintamente a spettatori di tutte le età e latitudini. Si tratta di un’opera che è andata a vincere un premio prestigioso oltreoceano al festival di New York, raccogliendo consensi ovunque sia stato proiettato sino a oggi: dall’Italia al Brasile, dalla Spagna alla Svezia, dalla Grecia al Canada.

Così ce lo ha presentato Francesco Del Grosso, documentarista pluripremiato (vincitore del Nastro d’argento e del Globo d’oro Speciale), critico cinematografico e una delle due menti dietro al documentario, che abbiamo avuto l’onore e il piacere di intervistare.

In Prima Linea: Francesco Del Grosso ci spiega la genesi del progetto

In prima linea, cinematographe.it

In Prima Linea è un documentario di rara bellezza e ciò lo deve all’incredibile consapevolezza che ha dei suoi obiettivi e del linguaggio con il quale ha deciso di raggiungerli. Raccontaci la genesi di un documento così specifico e “preciso”: com’è nato e come tu, insieme a Matteo Balsamo, vi ci siete avvicinati.

“È nato da un incontro tra me e Matteo, durante il quale abbiamo espresso il desiderio di realizzare un documentario insieme. In quell’occasione abbiamo vagliato una serie di progetti che avevo nel cassetto, tra cui In Prima Linea, e lì in maniera, oserei dire utopica, come accade una volta nella vita, abbiamo scelto il progetto che ci interessava realizzare e quattro settimane dopo eravamo già sul set per il primo ciak. Una cosa assolutamente fantascientifica se pensi ai tempi normali che ci vogliono per mettere insieme un budget e imbastire una produzione credibile.

In Prima Linea è il frutto di una preparazione breve, ma accurata. Abbiamo deciso di produrlo in maniera totalmente indipendente con la casa di produzione di Matteo, la Giotto Production, in collaborazione con la Merry-Go-Sound di Paolo Fosso, che ha firmato anche le musiche. Le riprese sono durate quasi un mese, mentre per il montaggio ce ne sono voluti ben 6, il più affrontato in pieno lockdown, lavorando da remoto, secondo quello che ora è comunemente chiamato smart working. Un’impresa nell’impresa. La condizione d’indipendenza ci ha dato quella libertà necessaria a trattare senza filtri i tanti temi complessi e al contempo delicati che ci siamo trovati ad affrontare nel corso della timeline. Ciò che ci affascinava del progetto è che non c’era nulla di simile in Italia. All’appello mancava un’opera che riuscisse a mettere insieme 13 fotoreporter di guerra di provenienze, estrazioni sociali, sesso, stile e generazioni diversi e allo stesso tempo concedere loro l’opportunità di poter raccontare se stessi in un modo così privato.

Dei fotoreporter di guerra abbiamo un immaginario stereotipato che ci viene dai film apparsi al cinema e in televisione, che non rispecchiano quella che è la realtà. Nel momento stesso in cui abbiamo cominciato a lavorare ci siamo resi conto che quegli stereotipi andavano abbattuti per poter raccontare la figura nella sua vera essenza. Abbiamo trovato la chiave per farlo andando a scavare nel loro essere uomini e donne, indagando chi ci fosse dietro la macchina fotografica, chi fossero, che emozioni provassero. Un vuoto che andava colmato.”

In prima linea, cinematographe.it

Torniamo, per un attimo, alla selezione di cui parlavi poc’anzi e della sua natura così eterogenea, essenziale per il racconto del film. Com’è stata pensata?

“Il processo di selezione dei fotoreporter in realtà è stata quasi naturale. L’idea era quella di non avere figure simili così da coprire più aspetti possibili. Ci sono i veterani, la generazione di mezzo e quella più recente, ma anche professionisti di sesso, estrazione sociale, stili e percorsi lavorativi differenti. In più volevamo un mix che ci permettesse di raccontare diversi conflitti, partendo dall’invasione dell’Afghanistan fino ai giorni nostri, coprendo circa 50 anni di guerre in tutto il mondo. Un arco temporale che ci ha consentito di mettere in evidenza i passaggi tecnologici epocali che hanno cambiato il mestiere, come il passaggio dall’analogico al digitale. E, nonostante i mutamenti che si sono trovati ad affrontare, ci siamo accorti che quello che non è mai cambiato è l’approccio umano alla professione, che poi era ciò che ci interessava di più raccontare.”

Ci puoi raccontare della struttura delle interviste? Sono state concepite per seguire un percorso comune o il loro schema è stato alterato di caso in caso per poi essere rimescolate nella (lunga) fase di montaggio?

“Sebbene In Prima Linea possa essere definito un talking heads, l’idea era quella di creare e di seguire un flusso emotivo, come se parlasse un unico uomo o un’unica donna. Non a caso la sequenza iniziale nella camera oscura è accompagnata da un racconto che ci parla di un bambino che rimane affascinato dallo sviluppo della fotografia e che poi decide di studiare e di diventare un fotoreporter di guerra.

Nella pratica ci siamo mossi ponendo le stesse domande, non concordate, a tutti gli intervistati e poi abbiamo lavorato per accumulo, lasciando fruire liberamente i discorsi, i ricordi e le emozioni. La scaletta si può dire che è nata strada facendo. La centralità dell’essere umano è stata la bussola che ci ha orientato. In seguito nel montaggio ci siamo resi conto (grazie all’intuizione di Roberto Mariotti) di come il racconto delle foto fosse il punto da cui dovevamo partire per arrivare al nostro scopo: il dialogo intimo di un fotoreporter con le proprie foto.

L’altro elemento che ci è guidato è stata la colonna sonora di Paolo Fosso e il sound design di Daniele Guarnera, che porta la proiezione in sala ad essere la sola veramente ideale per la visione di un’opera come questa. È stato il loro lavoro ad averci permesso di trasformare lo statico in dinamico, di dare vita alle foto e di trovare un leitmotiv tra i diversi stili dei fotoreporter.”

Raccontare la guerra

In prima linea, cinematographe.it

Abbiamo trovato molto intelligente il modo con cui avete giocato con il titolo. In Prima Linea non sempre racconta di trincee, terre di nessuno, etc… Anzi, si concentra sulle storie di chi cerca di mantenere una quotidianità, nonostante le armi e le bombe.

È guerra anche quella. La ‘prima linea’ è interpretabile. A noi interessava raccontare la guerra, che non è solo dove cadono le bombe, ma anche dove ci si trova a sopravvivere. Le persone che muoiono sui barconi sono vittime di guerra. La guerra sono manifestazioni in strada che finiscono con morti e feriti. La guerra è ovunque ci siano dei conflitti.

Ognuna delle foto mostrate nel documentario racconta non solo un’immagine della guerra; nasconde dietro di sé un aneddoto e, soprattutto, un dilemma morale. Uno dei passaggi più interessanti delle interviste riguarda proprio quanto sia stato giusto scattare una certa foto o meno. Una linea di confine tra documentazione e “pornografia di guerra”. Tu ti sei fatto un’idea di dove questa linea si può tracciare?

Io penso che di alcune cose possono parlare o, in questo caso, stabilire un ipotetico confine tra giusto e sbagliato, solo chi quelle cose le ha vissute. Come ribadiscono gli intervistati: ‘ogni foto non scattata è un torto che fai alla storia e all’umanità’. Anche se una foto è dura e cruda, questa è comunque una prova della morte di una o più persone, oppure è la testimonianza di un crimine, di una violenza o di una violazione di un diritto. Per quanto mi riguarda non c’è una linea vera e propria. L’unica forse è quella disegnata dall’etica e della morale, ma resta comunque nell’ambito della soggettività.

La nostra intenzione era raccontare la differenza tra una fotografia testamentaria e la  rappresentazione di una violenza fine a se stessa. Una discriminante può essere la distanza dal soggetto fotografato, un’altra l’estetica. Noi stessi ci siamo posti il problema di non scivolare nella ‘pornografia della violenza’.”

In Prima Linea e l’importanza del controcampo

Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso, cinematographe.it

Matteo Balsamo (a sinistra) e Francesco Del Grosso (a destra)

Ci puoi raccontare il tuo rapporto con la macchina fotografica, protagonista assoluta insieme, ovviamente, alla foto?

“Non ho un rapporto privilegiato con la macchina fotografica o con la fotografia in sé, quanto, magari, con l’immagine, di cui mi servo per raccontare le mie storie come regista. Ho scelto di parlare attraverso le immagini non perché sono “nato con il sacro fuoco nell’arte”, ma perché mi sono reso conto di come fosse l’unico linguaggio con cui riuscivo a comunicare con le persone.

Il fatto di avere a disposizione due controcampi, quello di chi produce immagini come regista e di chi le analizza da critico cinematografico, mi ha aiutato nel tempo a perfezionare un mio linguaggio.”

Durante la visione di In Prima Linea una cosa in particolare ci ha colpiti: le foto vengono descritte come degli “atti di fede”, delle gocce in mezzo al mare, che quando vengono scattate contengono in sé la promessa di documentare e di poter, potenzialmente, muovere la coscienza di chi le vedrà. Era questo l’obiettivo?

“In un certo senso si. È essenziale, per comunicare qualcosa, porsi sempre dalla parte di coloro a cui quella cosa è indirizzata, in questo caso, lo spettatore. Altrimenti la comunicazione diventa univoca. Per questo quando lavoro mi devo porre necessariamente in una maniera vergine, non dando nulla per scontato. In Prima Linea è un film che mi ha permesso di dialogare con il pubblico e lo strumento per farlo sono state le emozioni, le parole e le fotografie dei 13 protagonisti.”

Livio Senigalliesi, cinematographe.it

Concludendo, qual è la risposta che vi sta dando il pubblico alla visione del documentario e quali sono i prossimi appuntamenti di In Prima Linea?

“Il documentario esce ufficialmente il 10 di Giugno, distribuito da Trent Film, ma abbiamo fatto numerose anteprime in giro per l’Italia, in compagnia di alcuni dei fotografi protagonisti.

Siamo partiti a settembre dell’anno scorso con la première alla prima edizione del Matera Film Festival e, ad oggi, abbiamo partecipato ad una ventina di festival in Italia e all’estero, dove si è aggiudicato alcuni prestigiosi riconoscimenti. L’accoglienza è andata oltre ogni più rosea aspettativa. Siamo molto contenti del percorso fatto sino a questo momento, a maggior ragione in un periodo complesso come quello che stiamo vivendo. Il fatto di riportare spettatori in una sala con il nostro film ci riempie di gioia.”