Kufid: recensione del film di Elia Moutamid
Il regista Elia Moutamid sfrutta il lockdown del marzo 2020 per riflettere su identità, integrazione e retorica della solidarietà collettiva. Dal 17 giugno in sala
Nel dicembre del 2019, in linea con le aspettative di circa sette miliardi di persone, Elia Moutamid aveva altri progetti. In quel momento, l’idea era di tornare in Marocco, la terra delle origini, e girare un documentario lì. Un’inchiesta sul fenomeno della rigenerazione del tessuto urbano, con tutti i rischi conseguenti in termini di sostituzione e ricostruzione dello spettro sociale. La pandemia non permette al film di andare più avanti di così. Qualcosa del progetto originale però fatica a morire. Cambierà pelle, e in parte anche forma. Ma alcuni spunti restano. Il risultato di questa colossale inversione a u della vita e del cinema è un documentario presentato al Torino Film Festival del 2020 e in uscita il 17 giugno 2021. Distribuito da Cineclub Internazionale Distribuzione, si chiama Kufid.
Kufid, un film girato durante la pandemia, ma che parla di molto altro
Pandemia da coronavirus, situazione senza precedenti. Elia Moutamid è a Brescia, nella sua casa. L’intero paese è in lockdown nel tentativo di smorzare gli effetti di una tempesta che ha investito proprio la Lombardia, la regione più ricca d’Italia, con maggiore impeto. L’esempio italiano sarà presto seguito oltreconfine. Quindi la risposta è un film sulla catastrofe sanitaria? Grazie al cielo, no, l’intenzione è più lucida e calibrata. Sfruttando il tempo sospeso della quarantena Elia Moutamid organizza una riflessione che parte dal presente per dilatare i suoi interrogativi sul passato e sul futuro. Quello che succede, sembra suggerire Kufid, è conseguenza delle nostre scelte di ieri ma avrà inevitabilmente un impatto sul domani. Tutto merita di essere indagato.
L’adattamento inevitabile alle circostanze impone a Moutamid di essere molte cose insieme per il suo film. Scrive, dirige, interpreta, gestisce il sonoro e si occupa della fotografia. Il dazio pagato all’emergenza permette a Kufid di parlare con un punto di vista più netto e affilato. Discorso sulla cittadinanza cosmopolita di un uomo che vive sospeso tra due patrie, l’Italia e il Marocco. Film bilingue. L’arabo, la lingua dell’istinto. Italiano, la lingua dell’agire, parola di regista. Sullo sfondo di questo minestrone etnico e culturale la Lombardia che cambia sempre, agricola e post-industriale. E l’eco lontano del Marocco, letteralmente la casa del padre, l’impronta del film originale soffocata dai telegiornali e dal rumore delle ambulanze.
Cosa vuol dire, saremo più forti?
C’è chi troverà il film frustrante, perchè molto breve (un’ora circa). E perchè semina domande e non ha interesse a proporre risposte. Ma non potrebbe essere altrimenti. La forma del documentario è l’interrogazione: Elia Moutamid intesse un curioso dialogo con “Kufid“, entità malevola ma stranamente ricettiva, e cerca di riflettere su alcuni snodi fondamentali dell’identità individuale e collettiva. Lo fa moltiplicando i tempi della narrazione (passato, futuro), il linguaggio, i formati. Segue molte piste, non riesce a far quadrare i conti, incompiutezza è la parola d’ordine. Ma ciò che di solito rappresenterebbe un limite pesante, qui è coerenza interna e umiltà. Particolare attenzione è dedicata all’enfasi retorica che ha segnato l’inizio dell’emergenza. E al sentimento di solidarietà collettiva che l’ha accompagnata.
Galleria degli slogan, declinati con ossessiva ripetitività dal giorno uno. “Andrà tutto bene”. “Torneremo più forti”. Ma che vuol dire essere forti? Non sarebbe meglio diventare migliori? Passato il tempo delle esibizioni improvvisate sui balconi, mentre il paese è impegnato nell’estenuante processo di ricostruzione della normalità, le riflessioni di Elia Moutamid acquisiscono una forza ulteriore per la sintonia con quello che si potrebbe chiamare il secondo tempo della pandemia, il momento della revisione critica.
Kufid indaga la sincerità dietro il senso di fratellanza che della crisi è stato contrassegno emotivo, In un mondo in cui l’integrazione di realtà e culture differenti è costantemente fraintesa. Se davvero basta cambiare i palazzi per cambiare le persone, in Marocco come in Lombardia (e altrove), un senso fittizio del noi può essere il modo migliore per nascondere la polvere sotto il tappeto. Sarebbe meglio sfruttare il tempo sospeso della pandemia per guardare dentro la storia, individuale e collettiva, e gettare la basi per una nuova normalità, più giusta e gentile. Questo, in fin dei conti, un senso che si può dare al film. Un documentario difficile da recensire, perchè lavora sul tempo dentro e fuori lo schermo in maniera interessante. Meriterebbe un secondo round, a pandemia finita. Già, ma quando?