Wonder Boy, Olivier Rousteing: recensione del docu-film Netflix

Il biopic documentaristico Wonder Boy, celebra il direttore creativo della maison Balmain tra i più giovani della storia della moda, in un ritratto potenzialmente interessante sull’identità culturale e le radici parentali ma ricco di inutili cliché sull'immagine del creativo. Dal 26 giugno su Netflix.

A noi comuni mortali Il Diavolo Veste Prada ha lasciato, (tra le tante), la paradossale eredità di sforzarci di capire che dietro doppia opzione della tonalità cerulea di una semplice cintura c’è molto di più di una mera scelta, ma un dilemma vero e proprio che potrebbe decretare la riuscita o la sconfitta di un’intera collezione. Con toni mordaci e divertiti, ma anche stranamente seriosi, l’iconico film di David Frankel sovvertiva il racconto della Moda sul grande schermo, mostrando un’industria meno frivola di quel che sembrava, e dichiarando, piaccia o meno, che alla fine dei conti il nostro vestire quotidiano da comuni mortali obbligati a virare verso le grandi catene di abbigliamento low cost, potrebbe e può dipendere esattamente da quella insignificante scelta cromatica.

Da Miranda Priestly in poi, il mondo della moda raccontato al cinema, ha assunto un’aria seria e seriosa molto più del necessario, confacendosi alla parte più autoritaria, autocompiaciuta e snobista del personaggio interpretato da Meryl Streep, tant’è che con difficoltà, ancora oggi, non è riuscita a togliersi di dosso quell’aura di superiorità riposta nei ritratti di figure quali direttori creativi, modelle e stilisti.

Wonder Boy: Olivier Rousteing a soli 24 anni diventa il direttore creativo più giovane della moda, sestuplicando il fatturato della maison Balmain

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Wonder Boy, il primo lungometraggio biopic della regista, attrice e autrice parigina Anissa Bonnefont arrivato ora su Netflix, dedica al giovane direttore creativo della maison francese Balmain Olivier Rousteing, l’ennesima celebrazione vanesia e monocorde dell’artista vincente dietro i flash, quanto inappagato e turbolento nella vita extra-professionale, appiattendo la lodevole deviazione intrapresa nell’incipit della riflessione sull’origine, la genitorialità e l’identità culturale.

Il film infatti alterna sistematicamente momenti professionali a esperienze strettamente intime del trentaseienne, adottato in un orfanotrofio da una coppia di Bordeaux, ma mai venuto a conoscenza delle vere origini biologiche, nazionali o fisiognomiche di chi lo ha messo al mondo a soli quindici anni e poi, nel completo anonimato, costretta ad abbandonarlo in un ospedale. Il bisogno di sapere, di rimettere insieme i pezzi delle proprie radici, a Rousteing iniziano a sussurrargli nel 2018, quando conciliando le riprese del documentario e i mesi finali della sfilata stagionale, il ragazzo d’oro che a soli ventiquattro anni ha sestuplicato il fatturato della maison risultando il più giovane ad assumente tale carica secondo solo ad un certo Yves Saint Laurent, riceve dai servizi sociali un fascicolo contenente una manciata di informazioni sull’identità della madre biologica e sulla etnia somalo-etiope condivisa coi genitori emigrati in Francia a inizi anni ’80.

Gabbie dorate e cliché celebrativi

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A danneggiare le potenzialità della riflessione identitaria, di un ragazzo francese a tutti gli effetti ma che teme di non essere mai “abbastanza francese” dati i colori ambrati della sua carnagione, la Bonnefont purtroppo aggiunge un contorno davvero non necessario sulla prevedibile narrazione della gabbia dorata, mostrando il suo soggetto costantemente incline alla malinconia, all’insoddisfazione romantica, all’essere circondato da celebrità (Jennifer Lopez, Bianca Balti, Claudia Schiffer), e colleghi fidati senza mai sentirsi a casa. Troppo lavoro lascia poco tempo alla cura della propria anima, vorrebbe così mettere in guardia la regista, riprendendo il protagonista nelle poche confessioni personali scambiate con l’autista, o negli sguardi mesti persi nella lontananza del paesaggio, o ancor di più nelle costanti cene in solitaria consumate nello splendore opulente dei marmi della sua cucina.

Tutto è business (?): Wonder Boy tra fortuna e pubblicità

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D’altro canto pare che la Moda non riesca proprio a sfuggire dal suo stesso racconto stereotipato della creatività incanalata inevitabilmente da una qualche forma di sofferta inabilità alla felicità (recente il caso Halston), come se le due cose siano intricate e indissolubili. E detto attraverso la fortunata storia un ragazzo benedetto da un estro che gli è valso la fortuna di una vita, e ancor di più da una famiglia adottiva altrettanto amorevole, comprensiva e cosciente del tesoro accolto in casa nel lontano ’85 (deliziosi i nonni e il loro sconfinato orgoglio nella normalità borghese), la sensazione avvertitasi in Wonder Boy è forse quella di aver utilizzato la storia di Oliver a mo’ di propaganda, ci si azzarderebbe a dire, come se anche il dolore e la contrizione esistenziale di un artista possa essere utilizzata a fini vantaggiosi e a buon mercato. Vorremmo davvero non fosse così. Ma l’andatura stessa dell’industria del fashion pubblicitario, (il quale oltre a vendere stoffe, vende stili di vita e narrazioni personali), è proprio lì pronta a ricordarcelo.

 

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 2.5
Sonoro - 2
Emozione - 2.5

2.3

Tags: Netflix