Penguin Bloom: la recensione del film con protagonista Naomi Watts
Su Netflix arriva Penguin Bloom, il film di Glendyn Ivin con protagonista Naomi Watts, che racconta la storia vera della rinascita di Samantha Bloom.
Il ritorno a casa (cinematografico) di Naomi Watts si chiama Penguin Bloom, la pellicola presentata all’ultimo Toronto International Film Festival che racconta la storia vera di Samantha Bloom, adattando il libro Penguin Bloom – L’uccellino che salvò la nostra famiglia, scritto dal marito della donna insieme allo scrittore Bradley Trevor Greive.
Una storia di rinascita che si fa storia di riparazione. Riparazione in questo caso di un nido, archetipo essenziale del rifugio, focolare casalingo, andato in frantumi a causa di un incidente che ha fatto cadere dall’albero il membro più importante.
Il regista è uno dei più importanti di terra australiana, quel Glendyn Ivin già dietro la macchina da presa in The Cry, miniserie di pregevole fattura. Accanto a lui troviamo il direttore della fotografia Sam Chiplin, che regala al film uno dei suoi più grandi punti di forza insieme alle musiche di Marcelo Zarvos. Nel cast, oltre alla testa di serie sopracitata, ci sono Andrew Lincoln e Jackie Weaver.
Penguin Bloom è disponibile su Netflix dal 15 luglio.
Penguin Bloom: la caduta dal nido
Quella dei Bloom è una famiglia “piuttosto perfetta”, come ci dice Noah all’inizio di Penguin Bloom, mentre passa in rassegna le foto che li ritraggono spensierati e sorridenti. “Ma poi è arrivato l’anno scorso“, l’anno dell’incidente di Samantha (Watts), caduta da una balconata durante una vacanza in Tailandia. Da lì non è più riuscita a rialzarsi.
Sam era una grande amante dell’oceano, una donna piena di energia e un’ottima surfista, ma ora è costretta ad abitare un corpo non più in grado di muoversi dalla vita in giù, condannata ad una sedia a rotelle e ancora in un vortice depressivo dal quale non riesce a scorgere né il volto amorevole di suo marito Cameron (Lincoln) né quelli dei suoi tre figli. Eppure tutti quanti sono al suo fianco, determinati a darle sostegno, ma incapaci di riuscire a farla reagire e, dunque, anche loro sul ciglio della negatività di una figura mossa ora solo dalla voglia di distruggere il nido dalla quale è purtroppo precipitata. Proprio lei, che lo aveva creato.
Non tutte le cadute sono però una cosa negativa.
Un giorno, in riva al mare, Noah trova una gazza ladra, caduta da un albero e ferita dall’impatto. Decide di prenderla con sé e di portarla a casa Bloom. Si chiama Penguin, per via del colore, come quello dei pennuti del Polo Sud. Se i membri attuali non sono abbastanza per ricostruire una casa adatta al nuovo equilibrio familiare, forse allora potrebbe dare mano uno nuovo, in grado di capire, più di chiunque altro, la situazione che vive la donna.
E alla fine arriva Penguin
Ivin adatta il romanzo che racconta la storia di Samantha Bloom decidendo di partire dal concetto di nido familiare (ormai lo avrete capito), costruito da ramoscelli, erba e foglie che hanno la forma cinematografica di fotografie, rappresentanti istanti, momenti e vissuti, i quali, insieme, compongono la storia di coloro che ci hanno abitato. La chiave che decide di adottare per raccontarcelo è quella di un rapporto tra due membri singoli, la madre, Sam, protagonista della simbolica (e non solo) caduta, e di quello del suo primo uovo, Noah, il figlio maggiore che vive con il senso di colpa di aver causato la morte della figura materna che conosceva. Ora, costretto ad assistere una persona in piena agonia, incapace di guardarlo, in preda al rifiuto di ciò che è diventata e mossa solo dalla volontà di distruggere ciò che amava l’altra. La lei che non è più.
Funziona molto bene l’incipit, così come la proiezione tra Sam e Penguin, la gazza che prima le restituisce il suo ruolo di madre e poi diventa il perfetto alter ego di un percorso di rinascita teso all’obiettivo di cominciare a volare di nuovo, in una forma diversa.
Eppure la sceneggiatura pecca proprio nello sviluppo di queste premesse, riducendo lo svolgimento di Penguin Bloom a un trattato per lo più scolastico di una storia di ri-accettazione di se stessi e vanificando gran parte delle metafore che adopera per lo sviluppo del racconto, soprattutto nel modo che ha di affrontare il sentimento di Noah e la sua risoluzione.
Tutto quello che circonda la casa dei Bloom, paesaggi splendidamente affrescati dalla fotografia di Chiplin, non riescono a cogliere in modo realmente efficace il percorso di Sam, rendendo in primis il suo rapporto con il mare (sembra di assistere quasi ad una scena di Malick nei primi minuti della pellicola), poi reinventato con la figura dell’istruttrice di canoa/guru, un accessorio, così come accessorie sono le figure del marito, degli altri due figli e della famiglia di lei (madre e sorella), mai realmente approfondite, anche solo per regalare loro una funzionalità tangibile al senso del racconto. Il tempo che viene speso per raccontare la storia diventa così più rarefatto, meno orientato, se non dagli stati d’animo della donna e dalla lettura degli step del suo percorso attraverso quelli del piccolo pennuto.
Naomi Watts tiene la barra dritta, sfruttando i punti buoni di una scrittura che cerca di muoversi attraverso il simbolismo, ma che pecca di una esilità a volte decisiva nel non riuscire ad approfondire come dovrebbe la sofferenza della donna. La prova della protagonista è comunque ottima e riesce a regalare una immedesimazione allo spettatore, che non può fare a meno di pensare a come avrebbe reagito se fosse stato al suo posto.
Penguin Bloom finisce così con il diventare una pellicola che più del dramma umano, del rapporto con la natura o della complessità dei legami famigliari, acquista il formato di una favola dai toni lirici, in cui la protagonista è una gazza che insegna a una persona che per continuare a vivere con se stessi e con gli altri bisogna riuscire ad accettarsi.