Venezia 78 – Amira: recensione del film di Mohamed Diab
Personaggi impossibilitati a definirsi nel nuovo film di Mohamed Diab.
Amira ha 17 anni ed è molto affezionata ai suoi genitori: se con la madre ha un rapporto quotidiano fatto di tenerezza e complicità, con il padre le cose sono più complicate vista la lunga reclusione in carcere dell’uomo. Il padre era già in carcere quando Amira è venuta al mondo e, considerato il suo attivismo per i diritti dei condannati e dei palestinesi in generale, non uscirà molto presto. Durante una delle ordinarie visite in carcere, i genitori della ragazza decidono di provare ad avere un altro figlio, ma i continui tentativi finiti male nutrono un sospetto nella mente di Amira. Divisa tra un rapporto non sempre facile con i genitori e una relazione con un giovane ragazzo, la protagonista inizia una ricerca estenuante a proposito della sua identità, per dare un senso a tutte quelle convinzioni che la accompagnano fin da bambina. Amira cerca di prendere possesso della sua realtà e di definire il ruolo giocato da ogni agente esterno nella formazione della sua stessa persona.
Con Amira il regista Mohamed Diab esplora il significato dell’identità personale nel mondo egiziano
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2021 nella sezione Orizzonti, Amira è l’ultimo film del regista egiziano Mohamed Diab, spesso impegnato nell’esplorazione del mondo identitario nella società egiziana. Con questo film, Diab sposta la mira su una delle realtà che maggiormente incarna queste problematiche, una terra divisa tra Israele e Palestina, ma anche tra sacro e profano, in cui innestare agevolmente ogni possibile riflessione sull’importanza, il ruolo e i limiti della propria identità. Con Amira ci troviamo di fronte a una nuova immacolata concezione? O al frutto di un amore clandestino? O a una violenza interculturale? Per la protagonista dare risposta credibile a queste domande è importante quanto complicato avendo ormai minato profondamente la fiducia che la lega alla sua stessa famiglia.
Amira: l’arte di innescare il dubbio
Mohamed Diab con Amira non vuole dare risposte, quanto piuttosto porre ancora una volta sotto i riflettori un tema mai obsoleto e che si trova spesso dimenticato tra le pagine della cronaca quotidiana e dei libri di storia; ogni grande evento, ogni movimento politico e sociale poi si riduce alle persone che agiscono al suo interno e che finiscono con il dipenderne per definire il proprio posto nella società.
Una ragazza come Amira si trova divisa tra un’identità in cui lei si riconosce e una che invece le viene all’improvviso imposta dalla società circostante, che restituisce però una visione di una persona diversa da lei e che non tiene conto dei rapporti umani considerati solidi e inscalfibili fino a poco tempo prima. A inasprire questo sentimento della protagonista concorre anche il rapporto con i padre, difficoltoso vista la sua assenza e nutrito da Amira soprattutto con ricordi fittizi, usati come riempitivo illusorio di un mondo del passato che non c’è mai stato. Quesiti identitari, famiglie in cerca di nuovi equilibri e una società che intreccia le vite delle persone senza preoccuparsi delle loro volontà si mescolano all’interno di Amira, con l’obiettivo che resta sempre molto vicino ai volti dei protagonisti, come a volerne scorgere i lineamenti e le sfaccettature nonostante la penombra che domina buona parte delle sequenze. Anche a livello visivo, dunque, si cerca di sottolineare la difficoltà e in un certo senso l’impossibilità di prendere possesso completamente dell’identità dei personaggi, quando cambi di luce, di prospettiva e di percezione modificano continuamente la possibilità di definire le fattezze di ognuno in modo incontrovertibile.