Ezio Bosso – le cose che restano: recensione del documentario di Giorgio Verdelli
Dal 4 al 6 ottobre al cinema, Ezio Bosso - le cose che restano è un'occasione unica per scoprire la vita di un grande artista e goderne la Musica in sala.
Sanremo 2016, Ezio Bosso raggiunge il pianoforte al centro del Teatro Ariston. È amore a primo ascolto. Appare chiaro a tutti che quell’uomo che si sbraccia nei saluti ha più della sua malattia da raccontare. Un evento raro in una TV pubblica troppo spesso famelica di patetismi e quote diversità da sfruttare, compatire e gettare. C’è un fine sketch di Una Pezza di Lundini al riguardo: fa riflettere. Ezio Bosso però sfuggì allo schema. Affetto da una malattia neurodegenerativa, si raccontò dall’Ariston con la sua musica. Per davvero. Il suo amore più grande, nato prima di una malattia che lo ha afflitto solo negli ultimi anni di una vita sorprendente e varia. Sul Maestro Bosso c’è dunque un prima da raccontare. Prima del tumore, e prima della fama televisiva; sempre un po’ ambigua, sfruttatrice e invece poi sfruttata da un artista che seppe approfittare del piccolo schermo per raccontare le meraviglie della musica. Tristemente, Ezio Bosso è venuto a mancare il 14 maggio 2020. Quei prima, dunque, sono più urgenti che mai. Necessari a completare un’immagine dimezzata di un artista unico. Ci pensa ora Giorgio Verdelli, che dopo la presentazione Fuori Concorso al Festival del Cinema di Venezia 2021 arriva al cinema con Ezio Bosso – le cose che restano, in sala dal 4 al 6 ottobre con Nexo Digital.
Ezio Bosso – le cose che restano e molto di più
Le cose che restano sono le presenze di amici, colleghi, familiari. Non chiamateli ricordi, ha detto Verdelli. Ma è anche una canzone, inedita e rivelata al grande pubblico all’interno del documentario. Il regista non è nuovo al racconto di vite musicali. Suoi infatti i documentari Paolo Conte – via con me (2020) e Pino Daniele – Il tempo resterà (2017). Verdelli conosce dunque i pericoli che questi racconti portano con sé. La retorica dell’uomo-artista, le ombre che mostrano la luce; pratiche discorsive consumate e facili. Molte delle quali, inevitabilmente, presenti anche qui, nella panoramica che restituisce un Bosso già raccontato e riproposto in testimonianze non sempre incisive o necessarie. Sorprendono però le cose che restano. Il Bosso prima è inedito quanto la canzone usata da Verdelli per ornare il progetto. Si parte dall’inizio. L’infanzia, la gioventù. La Torino dopo le contestazioni e i Punk berlinesi, ma anche l’amore quasi doloroso per una musica che si esprime nel movimento e necessita di tempo e spazio. Ezio Bosso inizia la carriera da contrabbassista, ma sembra quasi un teatrante. Giullare musicale al servizio dell’arte e pronto a sorprendere. Il pianoforte arriverà poi, quasi obbligato dalla malattia ma non per questo sofferto.
Ezio Bosso e il cinema
Nel Bosso inedito ritroviamo numerose storie di cinema, e infatti Verdelli monta la testimonianza di Gabriele Salvatores proprio in apertura al film. Bosso era compositore. “La mia anima Musicale” lo chiama il regista di Io non ho paura, di cui il musicista scrisse la colonna sonora. Sono numerosi i volti dello spettacolo chiamati a rievocarlo. Da Silvio Orlando alle testimonianze di chi lo vide, giovanissimo, sonorizzare Chaplin con il contrabbasso. Sono storie che suonano chiare, svelando a poco a poco un’anima gentile e complessa, mai catturata nella sua interezza da nessuno dei cospicui compagni di vita. Un Bosso per tutti dunque, diverso in ogni storia e tratteggiato per sfumature.
Poche, purtroppo, le interviste dirette a lui. Molte sono recenti, poiché recente è la fama generalista da cui il documentario fa qualche passo indietro. Perché con Bosso siamo arrivati tardi, ma riscoprirlo resta un piacere distinto di note e parole. Due elementi così coerenti di un’opera artistica che ha divulgato, e ancora divulga, amore per la musica.
Lasciata la sala, dopo Ezio Bosso – le cose che restano, vorrete ascoltare Beethoven. E solo poi, Ezio Bosso. Proprio così. Perché come il più vero degli artisti, Bosso traghetta all’arte di cui è figlio e a cui sempre ha guardato in cerca di risposte. E Bosso guardava dritto al cielo: “come vedesse in Paradiso”, dirà il Maestro Geoff Westley.