Belgravia: recensione della serie TV di Julian Fellowes
Julian Fellowes firma la nuova mini serie Belgravia, costruita secondo l'estetica e la struttura narrativa di Downton Abbey.
Salotti dorati e corridoi patinati: lo stile barocco e vittoriano avvolge ancora una volta le inquadrature pregne di dettagli storici di una serie TV concepita da Julian Fellowes, autore e produttore del famosissimo Downton Abbey. Belgravia è la mini serie in 6 puntate co prodotta da Carnival Film & Television ed Epix, tratta dal romanzo omonimo di Julian Fellowes del 2016 (in Italia pubblicato da Neri Pozza), ideatore e produttore della nota e pluripremiata serie tv Downton Abbey. Diretta da John Alexander, la serie vanta tra i membri del cast Tamsin Greig (Tamara Drew), Philip Glenister (Bel Ami – Storia di un seduttore), Harriet Walter (The Crown), Tara Fitzgerald (Il Trono di Spade). Sarà possibile vederla su Sky Serie e in streaming su Now a partire dal 6 ottobre.
Un nome, quello di Fellowes, che lascia ben sperare, un marchio di fabbrica che sembra precedere anche prima dell’uscita il successo di questa nuova serie in costume: Belgravia vuole essere timidamente e impercettibilmente un prodotto seriale che si indirizza verso gli sfarzi registici, estetici e narrativi di Downton. Fatica ad esserlo, ma non si arena del tutto, sforzandosi per avvicinarvisi e rimandando allo spettatore dei buoni pretesti visivi e diegetici.
A Bruxelles, nel 1815, molti esponenti della nobiltà inglese emigrati in Belgio si ritrovano al ballo organizzato dalla duchessa di Richmond in onore del Duca di Wellington, comandante dell’armata inglese che di li a pochi giorni avrebbe fronteggiato Napoleone nella Battaglia di Waterloo. Al ballo sono presenti anche i signori Trenchard: James, il capofamiglia è il rifornitore ufficiale dell’esercito, desideroso di poter conferire una posizione sociale a sua moglie Anne e a sua figlia Sophia. Quest’ultima è innamorata, ricambiata, di Lord Bellasis, affascinante giovane e nipote della duchessa. La battaglia è imminente, e durante il ballo tutti i giovani sono costretti a partire per la spedizione contro Bonaparte, tra cui anche Edmund Bellasis. Nel 1840, con un salto temporale, assistiamo alla vita della famiglia Trenchard nel quartiere di Belgravia, elegante zona residenziale di Londra, e alle conseguenze che gli eventi di 25 anni prima hanno portato, tra segreti, intrighi e misteri che sembrano voler venire a galla prepotentemente.
Belgravia: lo sfarzo estetico e l’attenta ricostruzione storica
La ricostruzione accurata delle ambientazioni e dei dettagli stilistici sono ormai ben noti quando si sente parlare di Julian Fellowes: la ricercatezza con cui ci si sofferma anche sul più piccolo particolare rappresenta la forza di queste produzioni. Le riprese microscopiche e inclusive rappresentano senza ombra di dubbio la voglia di rappresentazione maniacale del dettaglio, derivante dalla produzione precedente, e che mostri uno studio approfondito a livello storiografico ed estetico.
Alcune inquadrature in particolare si mostrano aderenti ad un’idea di pittorialismo esaltato dalla magnifica ricostruzione cronologica e storica delle ambientazioni, che rimangono modeste a livello di spazialità, ma che appunto sembrano godere di un’attenzione particolare nell’arredamento, nella scelta dell’illuminazione e delle scenografie in generale.
Il montaggio è convenzionale e realistico, con riprese che si adattano ai tempi registici e strutturali: movimenti di macchina che seguono il ritmo diegetico, inquadrature studiate, costruite a volte per riprendere i totali delle ambientazioni, a volte per soffermarsi sui particolari con primissimi piani e dettagli. In taluni casi sono molto realistiche, invece, seguendo la narrazione concitata con inquadrature fuori fuoco, sghembe, controluce o poco illuminate, macchina a mano con piccolissimi piani sequenza che seguono i personaggi. I passaggi da una sequenza all’altra e tra le stesse inquadrature è dettata da una struttura linguistica convenzionale e che ricorda moltissimo quella di Downton Abbey.
Una storia che avrebbe molto più da dire
La narrazione si dipana seguendo un racconto a tratti frammentato, costruito secondo salti temporali antidiegetici che, però, sono necessari per comprendere la narrazione stessa, che si mostra differente da quello che lo spettatore pensava inizialmente, svolgendosi principalmente in un lasso temporale posteriore a quello dell’incipit. Ciò può apparire enigmatico, perché gli indizi narrativi vengono esplicitati mano a mano che si prosegue la visione.
Tutta la storia rimanda ad una sensazione antipatica che però cattura l’attenzione anziché distorgliela, perché è costruita ascondo una struttura narrativa minimale, che fornisce indizi diegetici molto lentamente. Questo può emblematicamente e metaforicamente riflettere gli atteggiamenti dell’alta società di tacere segreti e intrighi indicibili.
La narrazione sembra poi instradarsi su due binari convergenti: da una parte ci sono i piani alti rappresentati dalla nobiltà e dal mondo cittadino, dall’altro i piani bassi, con la servitù anch’essa protagonista nella vicenda, in quanto detentrice di segreti inconfessabili e che custodiscono gelosamente nella loro figura imperscrutabile, o al contrario ingranaggi di macchinazioni che coinvolgono la sfera nobiliare.
La recitazione si accompagna perfettamente alla narrazione, dimostrando di aver lavorato molto anche sulla ricostruzione dei modi di fare, oltre che dei costumi di scena. Bisogna però dire che diegeticamente alcuni personaggi sono delineati in modo molto stereotipato, e dunque si muovono e parlano proprio come se fossero delle macchiette, non essendo credibili fino in fondo. Ciò si manifesta soprattutto in quelli che hanno la funzione di antagonisti, che così non possono essere presi realmente sul serio per via delle loro movenze quasi da pantomima.
In linea generale la narrazione si fonda su uno svolgimento quasi scontato, non del tutto intrigante e sconvolgente. La storia del romanzo originale non viene approfondita incisivamente, rimanendo dunque un po’ in sospeso e a tratti incompleta. Forse sei puntate sono poche per riassumere tutta la composita della scrittura di Fellowes.
Il finale è dunque affrettato, non risponde pienamente alle aspettative iniziali, contrapponendosi con l’incipit, più disteso e meditato, a tratti più descrittivo.
Nel complesso però bisogna ammettere come Julian Fellowes anche questa volta sia riuscito a condensare la sua estetica storicamente accurata ed elegante, conferendo alla serie Belgravia quell’accenno di sensazionalismo che abbiamo già respirato in precedenza.