Roma FF16 – A Thousand Hours: recensione del film di Carl Moberg
A Thousand Hours è una storia di maturazione e crescita tra Copenaghen e Berlino, alla ricerca di se stessi e del proprio posto nel mondo.
La vita è un turbinio di esperienze e scelte, che inevitabilmente segnano il percorso di ogni individuo e ne costituiscono l’ossatura esperenziale.
A Thousand Hours è un film svedese indipendente, diretto da Carl Moberg, in concorso alla 16ª edizione della Festa del Cinema di Roma. La pellicola si presenta in modo manifesto con la sua natura fortemente artigianale, basata su una fotografia e una sceneggiatura immature e, certamente influenzate dal contesto ermetico tipico del cinema scandinavo, ma che non riesce a coinvolgere appieno lo spettatore a causa di alcune pecche strutturali molto forti.
A thousand hours è una storia di incontri e occasioni, un connubio imperfetto tra detto e non detto nella vita di una cantante che vuole inseguire il suo sogno.
Anna è una giovane cantante che decide cambiare le sorti della sua vita dopo la morte di un componente della sua band. Si trasferisce da Copenaghen a Berlino per cercare di sfondare nella musica, lasciando Thomas, membro della sua vecchia band e per il quale sembrava provare qualcosa, ricambiata. Ma quando Thomas si ripresenta dopo un anno, quella vita apparentemente stabile che Anna era riuscita a costruirsi in Germania, sembra sconvolgersi nuovamente.
A Thousand Hours: un montaggio che non convince
Questo film pecca su tutti i punti di vista: il montaggio è talmente convenzionale e lineare da diventare veramente monotono, rigido, senza possibilità di divincolarsi dalla legnosità dei passaggi di inquadratura e dei movimenti di macchina. Tutto questo rende non solo la fotografia altamente inappropriata rispetto al tessuto linguistico, ma l’intera narrazione assume una connotazione altamente sconclusionata, che non permette allo spettatore di cogliere appieno i passaggi temporali tra una sequenza e l’altra.
Sembra che vi sia il tentativo di conferire un’apparenza di realismo diegetico e strutturale, che però attraverso la costruzione del film non raggiunge il suo intento: tutto si cristallizza in una partitura già vista, ripetitiva, incomprensibile a volte. Tutto questo porta a non comprendere appieno sia le dinamiche filmiche, che il rapporto causa/effetto tra azione e reazione dei personaggi. Questi ultimi sono assolutamente dimenticabili e confondibili, caratterizzati al minimo e psicologicamente blandi, non riuscendo non solo a immedesimarsi con loro, ma anche non potendo comprendere le loro scelte a tratti insensate se non contestualizzate e spiegate narrativamente.
Lo sconvolgimento iniziale, ovvero la morte del batterista della band in cui canta Anna, non sembra essere un vero e proprio fattore di rottura, in quanto indicativamente le azioni che si susseguono da questo momento non sono altro che specchio della volontà dei singoli personaggi e per nulla motivati da questa perdita improvvisa. Anzi, la morte viene completamente tralasciata, senza necessariamente essere parte integrante della narrazione successiva.
A Thousand Hours è un film indipendente che pecca di professionalità
La macchina da presa sembra scrutare gli scorci di inquadratura e i personaggi, anche grazie a soggettive decisamente atipiche ma che rendono l’idea di occultamento della macchina da presa a favore dello sguardo penetrante del regista che assume le fattezze di personaggio diegetico. La camera a mano, inoltre, con i suoi movimenti tremuli e naturali, assume il ruolo dell’occhio umano che guarda, sbircia segretamente ogni angolo angusto, nascondendosi in porzioni di visuale che possano rendere l’ampiezza di focale tipica dell’occhio umano. Questo può essere considerato un espediente azzeccato per la volontà del regista di rendere la quotidianità realistica di una giovane in cerca del suo percorso, che viene giudicata dall’esterno da un occhio rivelatore. Ma è un espediente per nulla originale, anzi assolutamente scontato e già visto.
Tutto si vuole concentrare sulla figura di Anna, sulle sue scelte e le conseguenze che queste hanno sulla sua vita e su quella dei comprimari, ma non si riesce a costruire un tessuto psicologico introspettivo e extracaratteriale che possa conferire al film un aspetto appetibile e interessante a tutto il costrutto filmico. Ciò è dovuto anche dalla recitazione, asciutta, senza particolare spessore, e dal sonoro, che dovrebbe essere una componente fondamentale della narrazione, ma che invece non riesce a supportarla e a risollevarla.