The Club ‒ Parte 1: recensione della serie TV Netflix
La prima parte del nuovo period-drama turco The Club ricostruisce la Istanbul del secondo dopoguerra attraverso la duplice storia di una madre lavoratrice di un night-club, e della figlia ribelle, abbandonata per il suo passato oscuro di un amore inconciliabile alla religione. Dal 5 novembre su Netflix.
In una Istanbul convulsa, crocevia di culture e appartenenze religiose, coabitano con attenuato rigore ‒ ma solo fino a punto di rottura ‒ musulmani ed ebrei sefarditi; i primi, ottomani per territorialità, gli altri, emigrati a fine XV secolo dalla penisola iberica. Tra questi ultimi, esempio di una comunità vivace e solerte nel voler rispettare le tradizioni bibliche, la serie turca The Club (Kulüp nel suo titolo originale, da non confondersi coi millennials criminali di El Club) sceglie il personaggio di finzione Matilda Aseo (Gökçe Bahadir) per generare un racconto in costume ambientato per messinscena negli anni cinquanta del Novecento, proponendo un period drama romanzato sul mystery, ma più propriamente sul versante romantico.
The Club riscrive la stessa storia di una madre e una figlia nella Istanbul degli anni cinquanta
Disponibile alla visione dal 5 novembre grazie a Netflix, il primo capitolo della produzione turca, affidata al creatore Zeynep Gunay Tan, libera la narrazione sull’altrettanto libertà in amnistia giudiziaria della stessa eroina, chiusa in cella da diciassette anni per scontare una pena d’omicidio preterintenzionale con esito senza fine mai. Matilda, madre amputata della sua genitorialità in età giovanile, ha affidato all’orfanotrofio la neonata Rasel (Asude Kalebek), ora ribelle non ancora maggiorenne, stretta in una rabbia repressa dall’abbandono, incapace del tutto di abbracciare il ritorno della neo-scoperta madre, piombata nella sua vita come una granata emozionale.
Intrufolata con dolo nel piano inferiore del club gestito dall’empio proprietario Çelebi (Firat Tanis), la ragazza viene per questo incarcerata una notte, fatta uscire poi per volontà dello stesso manager, intenzionato a risarcire il danno con un accordo lavorativo proposto invece alla madre, quindi d’ora in poi lavandaia del club più esclusivo di Istanbul, nel quale sta per esibirsi la star del varietà Selim Songür (Salih Bademci), cantante d’avanspettacolo emergente con idee dirompenti, e per questo primo cantante-divo maschile di un locale d’intrattenimento.
Tra varietà e condizione femminile, la serie turca trascina a metà per spiccare nel catalogo Netflix
Cosa leghi in realtà il passato di Matilda e la sete di ripicca di Çelebi, che per tutta la durata dei sei episodi pungola con misteriosa perfidia la neo-assunta, The Club fa ruotare attorno la trama risolutiva dell’ambiguità, servendosi di flashback e di menzogne per ricostruire la gioventù della sua protagonista, innamorata allora di un musulmano e costretta, per moti pericolosi, a far esplodere quel colpo di pistola tuonato nei primissimi minuti del prologo. Evidente è dunque la costante dell’amore proibito e proibitivo fra le due religioni, a quanto pare inconciliabili, che si riflette così come un perpetuo concatenamento di lasciti di sangue e di culture, nella figlia Rasel, innamorata a sua volta di un tassista musulmano, e quindi invitata a sposare l’amico di sempre Mordo, figlio del rabbino ed ebreo praticante.
Biforcato fra le arterie popolane di una Istanbul folkloristica, e quella buia e frizzante del dietro le quinte del locale, The Club mostra con pericolante equilibrio un paese che sta cambiando, ancorato al contrabbando di alcolici e all’arrivo inaspettato della televisione; di leggi che iniziavano a proibire il lavoro ai non musulmani e di condizioni femminili ancora sotto ad un asfissiante patriarcato. Tuttavia, le microstorie dipanate su ogni personaggio, non riescono a confluire con amalgama in un unico quadro generale, rendendo poco armoniosi, sia i toni che spaziano in un batti baleno fra il dramma e il numero musicale; sia, altresì, nel sentire stesso dei personaggi in campo, gravitati nella loro restringente parabola e per questo vincolati a non catturare alcuna emozione spettatoriale.
The Club allora, merita il nostro sguardo probabilmente (e preme dire: soltanto) per l’entertainment musicale dei numeri sul palcoscenico, più che per la sua vera portata drammatica, incline ai toni da soap-opera televisiva e su una ricostruzione storica visivamente ben riconsegnata ma scarna di energia passionale, non nel mero senso romantico, ma piuttosto per quella religioso-culturale, che invece avrebbe motivato quella, altrettanto complessa e mutevole, della Turchia contemporanea.