Zerocalcare: filosofia e personaggi di chi ha imparato a strappare lungo i bordi
Dal 17 novembre su Netflix, Strappare lungo i bordi è la serie animata del fumettista di Rebibbia Zerocalcare. Scopriamo la sua filosofia e i suoi personaggi.
Con all’attivo i più straordinari dati di vendita del fumetto italiano, Zerocalcare – nome d’arte di Michele Rech – arriva anche su Netflix. La serie da lui scritta e diretta è Strappare lungo i bordi, è disponibile sulla piattaforma di streaming dal 17 e vede nel cast anche Valerio Mastandrea, che doppia l’ormai famoso Armadillo – versione 2.0 del Grillo Parlante di un Pinocchio che suo malgrado (o per fortuna, chissà) è diventato da tempo un bambino vero. La serie sembrerà molto familiare a chi segue il fumettista romano sin dai suoi esordi, o anche a chi lo conosce da un po’ meno. Lo stile di Rech è coerente e dà al pubblico esattamente quello che il pubblico si aspetta, ma, con un tenore che ha del miracoloso, riesce da 14 anni a affinare la tecnica restando spontaneo, perfettamente riconoscibile eppure mai banale. Probabilmente il più grande talento di Zerocalcare è essere se stesso (o perlomeno il “se stesso” che ha deciso di condividere con il pubblico) e sapersi comunicare in maniera credibile. Non mancano i detrattori, ma questo rientra nel pacchetto del successo o – in generale – dell’esistenza.
Ma qual è la filosofia alla base della lunga e brillante carriera artistica di Zerocalcare? Di che parlano i suoi personaggi?
Strappare lungo i bordi, una lunga metafora del vivere
Editoriale | Perché Strappare lungo i bordi è il grido malinconicamente ironico di una generazione
Insieme al suo impegno politico, nei centri sociali romani e nelle reti di solidarietà internazionali, uno dei grandi temi di Zerocalcare è l’introspezione, il guardare dentro la propria vita di Millennial – o perlomeno di esponente della sua generazione. Se la prima tematica era al centro di uno dei suoi più grandi successi di critica, Kobane Calling (un reportage del suo viaggio in Kurdistan in supporto della Resistenza allo Stato Islamico), la seconda abbraccia la maggior parte della sua produzione. Era quantomeno auspicabile, dunque, che per il suo esordio nell’animazione, Rech tornasse a parlare un linguaggio familiare, raccontando però una storia nuova.
Strappare lungo i bordi è il gesto delicato e lento che si fa per isolare le proprie figure tratteggiate sulla carta. Un modo di vivere che, alla lunga, pone la questione dell’attesa, del temporeggiamento, della procrastinazione. Una vita fatta di abitudini e comfort zone, da cui solo uno strappo deciso può portarci via. Per imparare una nuova lezione e tornare a rifugiarci dove è più sicuro. Come ha dichiarato lo stesso Rech in un’intervista recente, è questo senso di disagio e inadeguatezza a rendere la sua poetica un discorso universale. Nonostante sia fortemente caratterizzata in un determinato contesto geografico e sociale, l’opera di Rech è amata da una fascia di pubblico che travalica di gran lunga i suoi confini. Così, ci si riconosce facilmente in questo protagonista nervoso e ironico, che mette una spessa distanza tra sé e il dolore attraverso una raffica di osservazioni e battute, e che usa la propria personalità come coperta di Linus per proteggersi dai colpi bassi dell’esistenza.
I personaggi di Michele Rech: Zerocalcare, l’Armadillo, Alice, Sarah, Secco
Un elemento interessante della poetica di Zerocalcare è il modo in cui la sua percezione (e la necessità di porre delle distanze tra sé e il prossimo) trasfigura il mondo. Nella serie animata, Rech si serve di un espediente tecnico che rafforza questo elemento, già largamente utilizzato nei suoi fumetti. Mentre sul supporto bidimensionale della carta il punto di vista del protagonista è reso dalla rappresentazione di alcuni personaggi come animali o oggetti antropomorfi, o personaggi dell’immaginario pop, in Strappare lungo i bordi tutti i comprimari (tranne l’Armadillo) parlano con la voce dello stesso Rech. In un momento decisivo della storia, in cui il protagonista decide di uscire dalla propria visione univoca per accogliere un altro punto di vista, finalmente gli altri iniziano a esprimersi con la propria voce. E il mondo diventa più sfaccettato, imprevedibile e complesso.
La capacità di tenere tutto sotto controllo è dunque una mera illusione, così come la visione egocentrica che sottostà al senso di colpa. Ciò che spaventa, al protagonista come al pubblico che in lui si immedesima, è proprio quello che sfugge, su cui in fondo esercita poca o nessuna influenza, quel gesto inconsulto che manda all’aria anni di movimenti lenti e calibrati, per non rovinare le figurine fragili tracciate sulla carta. Ma dov’è allora la fragilità? Probabilmente nel voler assolvere a una perfezione che – per fortuna – non è poi così necessaria. Imperfetti, ma loro stessi, “gli altri” – Secco, Alice e Sarah – si mostrano finalmente a pieno.
Quell’equilibrio tra commedia e tragedia
Impotenza e manie di controllo. Empatia e autoconservazione. Un mondo estremamente reale raccontato con icone pop e personaggi che attingono a un immaginario fantastico. Il microcosmo di Zerocalcare vive di contrasti, che compongono però un quadro perfettamente coerente. Il fatto che si arrivi ridendo ai momenti emotivamente più devastanti del racconto non è un semplice espediente narrativo. Anzi, si tratta forse del realismo più autentico che un narratore contemporaneo può mettere in scena.
La classificazione per generi ha istruito il pubblico a dividere in maniera educata e rispettosa “ciò che fa ridere” da “ciò che fa piangere”. Tuttavia, e questo è un forte segnale della psicologia delle ultime generazioni, sempre più narrazioni stanno esplorando la complessità che ci porta a ridere nei momenti più tristi o a disperarci quando va finalmente tutto bene. Ecco un altro punto di forza di Zerocalcare e probabile motivo del forte affetto che i suoi fan nutrono per lui. Il Rech autore ha sempre abbracciato le sfaccettature del quotidiano, ben consapevole che anche dietro una battuta si nascondono tonnellate di disagio. Ma anche che le cose più brutte che possono capitare – la morte, la perdita, l’inadeguatezza di fronte alla sofferenza altrui – covano il seme di una lezione che resta e che arricchisce la nostra esperienza. Senza l’ipocrisia e il miele del tutto è bene quel che finisce bene, proprio di una letteratura old school e favolistica, ma con l’amara consapevolezza che chi rimane deve sforzarsi di andare avanti nel miglior modo possibile.
Non parliamo di un nichilismo anteguerra, ma di un empirico approccio alla vita degli anni Duemilaventi. Anni di precarietà esistenziale ed economica, di crisi dei rapporti e di profonda sofferenza psicologica. E quello di Zerocalcare è uno sguardo che eccelle nello sdrammatizzare (ben consapevole del dramma) perché – talvolta – questa è l’arma più potente davanti all’abisso.