Un pettirosso di nome Patty: recensione del film Netflix
Un pettirosso di nome Patty è una storia commovente e sincera che rimette in pace con il mondo, è un canto amorevole, diretto sia ai più piccoli che ai più grandi.
Un uovo d’uccello rotola nella tana di una famiglia di topi. Quando si rompe esce “una pettirossa” che viene accolta e cresciuta – come non pensare a La gabbianella e il gatto però Patty sa benissimo di non essere una topolina -, convinta di essere un topo anche lei; da qui prende le mosse una storia d’amore dolce e tenera, quella della protagonista (Bronte Carmichael) e della sua famiglia di topolini. Inizia così Un pettirosso di nome Patty, il mediometraggio animato in stop motion della Aardman (Wallace e Gromit, Galline in fuga, Giù per il tubo e Shaun, vita da pecora), di Daniel Ojari e Michael Please, in catalogo su Netflix dal 24 novembre 2021. Diventa poi anche una percorso di costruzione della propria identità, della presa di coscienza di ciò che si è. Guidata dal loro amorevole papà topo (Adeel Akhtar), la famiglia entra nelle case degli umani, perfezionando l’arte del rubare briciole, piccole cose. Durante uno di questi colpi, a Patty cade un cucchiaio, proprio perché l’arte del rubare non le è congenita, e la squadra viene scoperta. A questo punto inizia a rendersi conto di essere diversa dagli altri ma non sempre è facile, così si mette alla prova con il piano più grande e ambizioso di tutti per far vedere alla sua famiglia che lei è come loro.
Un pettirosso di nome Patty: essere o non essere un topo
Topolino: “Wow”
Topolino: “è un cosino buffo”
Topolino: “è mangiabile?”
Papà Topo: “no, è un’uccellina, una pettirossa credo”
Come avviene quando una famiglia si occupa di qualcuno che non ne fa biologicamente parte, loro si aprono a lei, la considerano forse ancor di più una di loro, ma certo, le differenze ci sono. Patty fin da subito si dimostra impacciata, mentre dovrebbe sussurrare per non farsi sentire lei gorgheggia, quando dovrebbe camminare piano e senza inciampare da nessuna parte lei ha fretta ed entusiasmo e inciampa dappertutto. Non ha proprio il tocco del suo papà e neanche quello dei suoi fratelli, lotta con sé stessa, si mette in discussione, vuole a tutti i costi essere un topolino – come non pensare a quelle deliziose orecchie da topo che si è “costruita” con le sue piume – e farebbe di tutto per trovare in sé stessa le stesse abilità che trova in chi l’ha cresciuta. Per darne prova, più a sé stessa che agli altri – non può dimenticarsi che è a causa sua se i fratellini e il papà non hanno mangiato -, decide di rubare un panino intero, o una gigantesca mollica di pane, vuole dimostrare di essere degna di essere un topo; anche in questo caso, come nei cartoni animati in cui si raccontano i viaggi delle eroine e degli eroi umani, anche qui la protagonista compie il suo percorso per crescere: entra in una casa da sola perché vuole “sgraffignare” cercando di mettere in pratica ciò che le hanno insegnato.
Fondamentale in questo viaggio è l’incontro con l’altro, soprattutto quello con una gazza, Magpie (interpretato da Richard E. Grant), che la mette di fronte alla sua vera natura, da lui impara le abilità proprie dei volatili (il volo) che nessuno poteva insegnarle, e inizia a scoprirsi per davvero. La gazza le fa conoscere il piacere delle cose con cui addobba la casa – scena che ricorda quella di molti altri cartoni animati, la collezione di Ariel, quella di Walle -, le fa conoscere il Natale, la stella puntale con cui si addobbano gli alberi e che aiuta gli umani a ricevere tutto ciò che vogliono.
Patty incontra anche un nemico, il classico antagonista che la incoraggia a migliorare, a superare sé stessa, in questo caso si tratta del villain felino interpretato da Gillian Anderson, il gatto è nemico pubblilco sia dei topolini che degli uccellini e quindi la protagonista si trova di fronte ad un cattivissimo all’ennesima potenza. In uno dei loro incontri
Il gatto: “Non sarai mai un vero topo, lo sai questo?! Sei uno strano, sei un disadattato. Sei bruttino […]. Un topo con un becco da uccellino, un così strano pennuto non l’avevo mai incontrato”
Il discorso del gatto la colpisce, la fa soffrire, lei ama la sua famiglia e per molto tempo ha “tenuto”, forse anche inconsciamente, la sua natura – la gazza le chiede perché non sappia volare. Patty però capirà che si deve essere sé stessi, bisogna accettarsi. Scopre, infatti lungo il viaggio, di essere un grande pettirosso, di saper gorgheggiare, di sbattere le ali con leggiadria, proprio mentre si rende conto di essere un pessimo topo, e quando è a conoscenza di ciò può usare anche questo se necessario.
Un pettirosso di nome Patty: la dolce scoperta di sé
Un pettirosso di nome Patty è realizzato in stop-motion, tecnica complessa che ha bisogno di molto tempo e pazienza, qui raggiunge la massima espressione. In questo caso la Aardman non ha lavorato, come al solito, con la plastilina, ma con feltro agugliato. Il messaggio potente del mediometraggio arriva forte e chiaro e riesce a fare questo grazie al grande lavoro che è stato fatto curando ogni piccolo dettaglio, grazie alla tecnica usata che dà la sensazione di essere davanti a qualcosa di umanissimo e di profondamente classico: la scelta dell’ambientazione natalizia, l’approccio all’animazione dello studio di Bristol, legato all’artigianato, alle tecniche tradizionali del mezzo espressivo.
Tra un canto e un gioco di colori, tra una fuga nella neve alla ricerca di sé e un viaggio dentro di sé Un pettirosso di nome Patty è una storia dolce e delicata che con tenerezza mostra quanto sia bello crescere e scoprirsi: essere il peggior topo del mondo, essere semplicemente un pettirosso, o forse essere entrambe le cose insieme. Patty è magnifica così come è, senza troppe definizioni e senza troppe etichette. Patty è comunque parte di una famiglila di topi, è amata e adorata per ciò che è, questo è l’importante.
Un tenero canto che mette in pace con il mondo
Un pettirosso di nome Patty è una storia commovente e sincera che rimette in pace con il mondo, è un canto amorevole, diretto sia ai più piccoli che ai più grandi, che ricorda quanto sia bella l’unicità e quanto, dove c’è amore, le differenze non esistano, anzi siano valori aggiunti.