Il Marchese del Grillo: significato e analisi di un capolavoro
Analizziamo Il Marchese del Grillo, il film capolavoro con Alberto Sordi: una commedia cinica che porta a galla i difetti umani.
22 dicembre 1981, nei cinema c’è una commedia brillante e spietata, un affresco divertito e arguto che porta in scena una classe devitalizzata, un mondo in sfacelo, il film è Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli, interpretato da Alberto Sordi. Dopo ben 40 anni, nel 2021, è ben chiaro e evidente quanto quest’opera sia importante, una colonna portante del nostro cinema. Il film si iscrive alla perfezione nell’arte di Monicelli, sardonico, anarchico, divertente e malinconico, tanto quanto nei ruoli di Sordi, rappresentante di una Roma piena di sé e caciarona, ricco ma anche povero d’animo, che se la crede eppure è pieno di storture e ragnatele.
Il Marchese del Grillo: il gusto dello sberleffo e dello scherzo
Il Marchese Onofrio del Grillo, duca di Bracciano, guardia nobile e Cameriere segreto di sua Santità Pio VII, è il tipico uomo della nobiltà romana dei primi dell’Ottocento. Vive in una casa meravigliosa, circondato da personaggi assurdi che compongono un mondo altrettanto assurdo. La madre ostile, rigidissima e conservatrice, Genuflessa, la cugina innamorata segretamente di lui, la sorella sposata, con un figlio e lo zio ossessionato con la santificazione della beata Quartina, Ricciotto, il suo servo che lo accompagna nelle scorribande e burle, queste figure sono fantasmi di un’epoca che non ha più valore di esistere per il Marchese che vuole colpire proprio in quanto rapprentanti di un passato ormai sepolto. Siamo in piena occupazione francese (tanti i doni “franzosi”, la ghigliottina, le donne attrici, un futuro che sembra sul punto di “essere dietro l’angolo”) e il potere temporale del Papa appare in bilico, e Onofrio spera in questa ondata di novità. Architetta continui scherzi, fino a raggiungere l’apice nel momento in cui, trovando un suo sosia ma carbonaro, Gasperino, decide di portarlo a casa e scambiarsi vite e maschere. Nessuno incredibilmente noterà la differenza.
Questo è il centro di Il Marchese del Grillo, il gusto dello sberletto, della risata e Onofrio è la massima espressione di questa componente ludica, è il volto perfetto del cinema di Monicelli e di Alberto Sordi, l’italiano arrogante, gaudente, indifferente in maniera bonaria e di un’astuzia vigile e sottile. L’attore porta in scena il gioco, lo scherzo, la forza anarchica di colui che prova a ribaltare la situazione, cancellare ordini, consuetudini, posizioni sociali e morale corrente. Monicelli mette al servizio del protagonista tutto il suo mestiere e il suo cinema, pieno di risate ma anche di una struggente e dolorosa malinconia, la burla come strumento per cucire le ferite, lenire le tristezze della vita, e Onofrio del Grillo è un omaggio alla romanità – il protagonista è ispirato ad un nobile del XIX secolo realmente esistito che nella mitologia popolare della città eterna è diventato famoso proprio per la sua irriverenza e i suoi scherzi -, per questo ha scelto Sordi.
Una commedia cinica che porta a galla i difetti umani
Monicelli è antifascista, ateo, e con il suo cinema vuole dare un messaggio, vuole dare corpo ad un popolo libero e anche Il Marchese del Grillo si fa presa d’atto, autocritica di ieri e anche di oggi; Onofrio è un cinico, un aristocratico, pieno di vizi, si diverte su tutto e tutti, ridicolizza un sistema che vorrebbe cambiare ma a cui appartiene.
Odia il mondo di cui fa parte ma lui è orgogliosamente il Marchese Onofrio del Grillo, dice di essere stufo di un certo mondo ma poi la mattina presto per puro divertimento getta dal balcone pigne e frutta marcia ai poveri.
“Vedi come so’ sti straccioni?! Prima vogliono la frutta e poi protestano. Certo che una pignata in testa fa male… però fa ride’”
Il nocciolo delle sue giornate sta tutto qui, può far male, ferire ma se fa ridere, va bene. Onofrio non prende niente sul serio, ogni cosa può diventare un scherzo, un modo per passare il tempo senza subire gli urti di una vita davvero noiosa. Mentre la madre e tutta la famiglia vanno a messa, lui torna a casa dopo essersi divertito nelle bettole e osterie, aver giocato proprio con quegli stessi straccioni che irride.
“Io so’ io e voi non siete un cazzo”
Onofrio è un del Grillo e nei momenti di tensione della storia lo ricorda, proprio come a testimonianza di una vita diversa da quella degli altri, eppure diventa amico dei francesi – quelli che occupano la sua città, che rapiscono il Papa, che vogliono cambiare tutto ciò che è Roma -, ne invita a casa due, la bella Olimpia e un alto militare, per farsi bello graize alle ricchezze della propria famiglia ma poi, rintanatosi in una delle loro tenute decadenti, per accendere il fuoco del camino brucia una poltrona del ‘500.
Ha tante amanti, una di questa è la giovane servetta Faustina, sa benissimo che lei è sua proprio per il suo ruolo e il potere che ha, eppure deve vendicarsi, sempre per il gusto dello scherzo, quando scopre che la ragazza gli sta mentendo e ha lei stessa un innamorato. Lascia, di notte, la guarnigione per la salvaguardia del Papa proprio per mettere in atto la burla, ma proprio a causa della sua assenza i francesi entrano e “rubano il Papa”. Onofrio non ha regole, non sa bilanciare le cose della vita né i ruoli, oppure lo sa fare ma non gli importa nulla.
Il Marchese del Grillo: lo scherzo come motore d’azione
“Io se potessi sfascerei tutto, vaffanculo il ‘500, il ‘600, il ‘700”
Onofrio è pieno di contraddizioni, odia e si pavoneggia, si bea e maltratta, schernisce e poi infine aiuta, o aiuta e poi schernisce. Da lui puoi aspettarti qualunque cosa. Si racconta come un ragazzino un po’ annoiato (“Pensi che sia stato facile nascere come me, a Roma, con il Papa”) e infelice, ricorda la sua infanzia tra un padre silenzioso e una madre che l’ha cresciuto attraverso due dettami, lo studio e la religione. I suoi unici amici sono stati i libri, compagni di avventure, eppure lì, tutto, nonostante il tempo passato, è uguale a prima, come si dice nel film Roma a quel volto che le viene dalla sua storia fatta di anni e portare del nuovo vorrebbe dire distruggerla.
La noia, questa è la molla che smuove il Marchese: solo gli scherzi lo aiutano a sopravvivere in una Roma fin troppo papalina, ridotta a guardarsi e ad autocelebrarsi, a rimanere sempre uguale a sé stessa, impolverata e concentrata sulla/nella sua sfolgorante bellezza. Vive tra i fasti del suo passato ma sogna un futuro assai diverso, infarcito come è di idee rivoluzionarie, però sembra non essere in grado di attuarle.
Il Marchese è anarchico, scaltro e a tratti anche opportunista, non fa distinzione tra poveracci e alti prelati, tra la famiglia e gli sconosciuti. Per non dover subire la sorella che ogni mattina gli alita in faccia come prova del suo stato di salute, manda il cognato a lavorare a Macerata. Non è come gli altri, non chiede aiuto per far rimanere il cognato, sua sorella e il nipote, lui vuole ciò che è meglio per lui, anche a costo di fare una burla che può diventare una tragedia. Si dichiara, e forse è, molto più amico e vicino a Ricciotto, a Olimpia, a Fra’ Bastiano, ai francesi, a chi non è, o non dovrebbe essere, sulla stessa barricata.
Aronne Piperno, la giustizia e le campane a morto
Il Marchese un giorno decide di non voler assolutamente pagare il falegname Aronne Piperno, poco importa il motivo, poco importa lo sghiribizzo che gli è partito in testa. Aronne ha realizzato dei mobili molte volte per il Marchese e non era stato retribuito per un lavoro, lo chiede perché gli spetta, Onofrio accampa scuse, chiama addirittura in aiuto il fatto che il povero uomo fosse “giudio” e quindi aveva tutte le ragioni per avercela con lui. Piperno non ci sta, vanno in tribunale ma per sua stessa ammissione Onofrio ha corrotto tutti. Con questo bruttissimo scherzo vuole dimostrare che la giustizia non è per niente giusta, che è sempre dalla parte dei Marchesi e mai da quella dei falegnami e fa tutto questo però mettendo alla berlina il più debole – per poi risarcirlo in seguito ma il gioco è ormai fatto.
Aronne è nel giusto, crede e, pur vivendo in quella società, è convinto di poter vincere ma non è così. Monicelli mostra quanto il mondo sia dei potenti, dei ricchi, quanto conti la ricchezza e il danaro. Dopo questa burla il Marchese fa suonare a morto le campane come accade solo quando muore il Papa e a quest’ultimo, vivo e vegeto, profondamente adirato con il figlio prediletto, dice: “è morta la giustizia. Io avevo fatto un torto ad un povero falegname giudio ma sono riuscito, corrompendo […] a far condannare quel poveraccio solo perché lui povero e giudio e io ricco e cristiano“. Il Papa lapidario dice: “Ricordati figliuolo, la giustizia non è di questo mondo ma dell’altro”.
Il Marchese del Grillo: che differenza c’è tra Onofrio e Gasperino, il Carbonaro?
Questa è l’altra faccia del borghese piccolo piccolo meschino e giustiziere, Onofrio è nobile, arrogante, perfetto interprete della decadenza romana, è colto ma sa essere anche volgare, ruffiano e prevaricatore, crudele ma anche generoso. Onofrio del Grillo è il trionfo delle maschere di Alberto Sordi, è il parossismo dell’italianità che ha sempre celebrato e preso in giro. L’ultimo scherzo epico del Marchese, che poi è il vero significato del film, è quando scambia sé stesso con il Carbonaro Gasperino; anche ‘sta volta vuole dare una dimostrazione ad una società che è incastrata e incancrenita su sé stessa.
“Siamo tutti uguali”
La maschera è la stessa, per la sua famiglia basta avere quell’involucro e poco importa che dentro ci sia il loro Onofrio o l’ubriacone Gasperino. Preparando l’inconsapevole attore, lavandolo e rilavandolo, riempiendolo di profumo per nascondere l’odore del lavoro e del vino, si dimostra che sta proprio lì la differenza in quella società, in quella casa, per quelli che lo dovrebbero conoscere molto meglio di altri.
Parla nel romanesco più triviale, palpeggia la cugina, abbraccia la madre, urla, divora il cibo come una bestia ma per i parenti è più facile pensare che sia l’anima di un carbonaro che si è impossessata del loro congiunto. Basterà poco per il vero Marchese per far venire a galla la verità, in fin dei conti questa non è poi una storia tanto diversa da quella di Aronne, è una sua declinazione: tutto dipende dal “lato” di Roma in cui nasci, dalle vesti con cui ti coprono quando esci dal ventre materno, tutto sta nell’etichetta che ti cuciono addosso.
Il Marchese, dopo questo scherzo vorrebbe lasciare tutto, andare via da Roma, che non lo merita, raggiungere Olimpia a Parigi ma la vita al di là delle mura antiche, asfittiche, papaline, non è poi così semplice, e chi glielo fa fare ad un marchese smettere i panni del nobile per diventare uno qualunque che anzi ha il peso di essere romano. Torna a casa, torna a portare, proprio come all’inizio, in una struttura circolare, la sedia gestatoria e inciampandosi nuovamente proprio come nell’incipit, alla guisa di chi, forse, non ha capito proprio nulla, dice: “La vita è fatta a scale, c’è chi scende e c’è chi sale”.