Bigbug: recensione della commedia di fantascienza Netflix
Nel 2045 gli esseri umani hanno delegato qualsiasi attività all'intelligenza artificiale, anche a casa della nostalgica e romantica Alice. Quando i robot si ribellano, i suoi androidi cercano di proteggere lei e la sua famiglia.
Il nome del regista francese Jean-Pierre Jeunet viene da ormai 20 anni esclusivamente associato a quello che è presto diventato – nel bene e nel male – un cult di rilevanza planetaria, studiato nei manuali di cinema e tenuto di palmo di mano persino dall’industria americana: Il favoloso mondo di Amélie, ovvero la storia di una 22enne parigina che un giorno decide di entrare a fin di bene nella vita degli altri. Il successo (anomalo, imprevisto) di quella commedia è stato tale da condizionare il resto della carriera di Jeunet, che pur prima di Amélie aveva realizzato un Alien e soprattutto Delicatessen, opera che aveva ridefinito i confini di grottesco applicato al cinema.
A ben 9 anni di distanza dal suo ultimo lavoro (Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, 2013), Jeunet si ripresenta al grande pubblico e lo fa piuttosto in sordina, direttamente su piattaforma e senza grandi proclami. Con Bigbug – su Netflix dall’11 febbraio – siamo dalle parti della satira fantascientifica, con evidenti riferimenti anche alla situazione pandemica attuale e allo stato di lockdown / clausura che siamo stati costretti a vivere nell’ultimo biennio. Un film che, come spesso accade con l’autore transalpino, conquista col suo incipit accattivante, colorato e ritmato, seminando qua e là riflessioni di indubbio interesse sociale.
Bigbug: Il distopico mondo futuro di Jeunet
In un mondo futuro in cui le auto volano, non ci si stringe più la mano (ma ci si tocca i gomiti), le librerie con “libri veri” sono una rarità, il cubo di Rubik è un memorabilia e le torte di vermi sono prelibatezze, i computer e i robot gestiscono tutto. Agli umani piace così, finché la loro tecnologia non si rivolta contro di loro. Accade nell’appartamento di Alice, nel giorno in cui invita a casa sua il suo spasimante e il figlio di lui. Poco prima che accada il disastro, si presentano alla porta anche il suo ex marito con la sua nuova fiamma e la vicina di casa, a caccia del suo cane Toby.
È, in pratica, una sorta di set teatrale, e infatti la vicenda procede attraverso grandi scene madre ambientate tra la cucina, il soggiorno e le camere da letto. Il gruppo è costretto a una convivenza forzata, nel momento in cui l’intelligenza artificiale presente in casa non permette più a nessuno di uscire all’aperto. Fuori qualcosa minaccia la stessa esistenza umana, e gli androidi “di famiglia” (un giocattolo, un tuttofare cingolato, un automa dotato di grande intelligenza e un umanoide domestico simile alla fantasia anni ’50 di una cameriera robot) si pongono come unico obiettivo la difesa dei loro proprietari.
“La più grande invenzione dell’uomo: l’intelligenza artificiale o l’umorismo?”
A voler ricercare dei riferimenti colti, l’impostazione di Jeunet rimanda un po’ all’esplorazione bizzarra e paradossale indagata da Luis Buñuel in L’angelo sterminatore (1962) e Il fascino discreto della borghesia (1972). Ma Bigbug fa parte anche di quella tradizione di film di fantascienza che usano i robot e l’intelligenza artificiale per farci riflettere su cosa significhi essere umani, spingendoci a considerare anche come un utilizzo scriteriato della tecnologia possa fortificare forme autoritarie di governo (qui rappresentate dagli Yonyx, esseri senzienti prodotti in serie visivamente e concettualmente simili a Robocop, programmati per mantenere l’ordine ad ogni costo).
Pur restando fieramente e consapevolmente dalle parti della commedia fantascientifica screwball, e disperdendo via via le sue potenzialità cedendo troppo spesso al bozzetto cumulativo, Bigbug solleva interessanti questioni sulla vita artificiale, spesso nascoste tra i botta e risposta dei dialoghi tra i personaggi. Perché se è vero che “le capacità straordinarie degli esseri umani derivano tutte da un difetto”, è altresì indiscutibile che ciò che ci differenzia dagli automi è e sarà sempre la capacità di interpretare la realtà attraverso sentimenti quali l’umorismo, l’empatia e la comprensione. Ed è forse proprio per questo che Jeunet non cambia mai registro al proprio film, tenendolo a un passo dall’ultra-kitsch e dal bislacco: per non ucciderne l’umanità.