Master: recensione del film Amazon Prime Video con Regina Hall
Due donne afroamericane si interfacciano a una realtà fino a quel momento esclusivamente bianca. Entrambe faranno i conti con un mondo che nasconde qualcosa di terribile, legato ad antiche tradizioni...
Salutato al Sundance Film Festival come uno degli esordi alla regia più interessanti degli ultimi anni, Master di Mariama Diallo (disponibile su Amazon Prime Video dal 18 marzo) cerca di inserirsi nel solco ben tracciato dei film di Jordan Peele (Get Out – Scappa e Noi) o di His House (prodotto a sua volta emulativo, ma efficace). Si parla ancora una volta di razzismo e diversità, utilizzando come grimaldello l’horror e le sue metafore.
E non si può non riconoscere a Diallo un certo coraggio, così come traspare in filigrana l’entusiasmo per un progetto in cui si vorrebbero inserire molti spunti di riflessione e sollecitazioni. È questo, forse, uno dei problemi maggiori del film: la scarsa capacità di approfondimento, l’indecisione di fondo su quale percorso intraprendere. Per eccesso di generosità, s’intende, ma le questioni in sospeso permangono e lasciano, al termine della visione, una certa sensazione di insoddisfazione.
Master: una satira horror e pessimista sul razzismo
Un’immaginaria università del New England – con annesso campus – si prepara ad accogliere le nuove reclute, oltreché la nuova direttrice. La nostra attenzione si posa proprio su di lei, Gail Bishop (interpretata da Regina Hall, reduce dalle tre annate della serie Black Monday) e sulla studentessa Jasmine (Zoe Renee). Per entrambe in questo nuovo inizio c’è qualcosa di strano: alla felicità si mescola una sensazione di inadeguatezza, dettata dalla diffidenza generale e da alcuni eventi sinistri.
La ragazza è una degli 8 allievi di colore presenti in tutto l’edificio, e nel dormitorio in cui alloggia si ritrova nella stanza in cui la prima studentessa afroamericana dell’università si è tolta la vita negli anni ’60. La nuova responsabile dell’istituto, invece, percepisce che la sua nomina (è la prima donna nera a ottenere quel ruolo) è solo di facciata, nel nome di una inclusività fittizia utile solo a aumentare il blasone della scuola. È qui che Master sviluppa il suo aspetto più interessante: la “diversità” non è altro che un marchio di prestigio, che modifica tutto affinché tutto, in realtà, resti uguale.
“Non sono fantasmi, non sono cose soprannaturali. È l’America”
L’escalation di eventi inquietanti che le due protagoniste sperimentano va dagli incubi notturni e dagli scricchiolii inconsueti nel silenzio più assoluto alle umilianti microaggressioni dense di claustrofobia e disagio (molto funzionali soprattutto a livello visivo, basti pensare alla scena della festa tra studenti). Il film – prendendo a esempio i sopraccitati lavori di Peele – vuole giocare su campi contrapposti che dovrebbero mescolarsi e compenetrarsi: la realtà e la sua trasfigurazione, nel desiderio di drammatizzare la violenza psichica sperimentata dagli afroamericani che si muovono in spazi storicamente (e stolidamente) bianchi.
A mancare qui, in particolar modo dal momento in cui i due personaggi principali finalmente si incontrano, è però la credibilità: mentre si ragiona su inclusione, diversità e appropriazione culturale, troppe svolte e troppi input vengono gettati nel mucchio senza un adeguato sviluppo narrativo (i due colpi di scena a distanza ravvicinata, ad esempio). Master è un’opera intimamente pessimista, che lascia tuttavia un altrettanto profondo senso di incompletezza. Come lezione sul razzismo arriva in ritardo, e vive più di suggestioni che di reali rivelazioni. E come pellicola horror manca di impatto e sorpresa: i suoi elementi più spaventosi sono fuori dallo schermo, nella forma delle persistenti realtà sociali che lo hanno ispirato.