In buone mani: recensione del film Netflix di Ketche
In buone mani è la storia di una madre sola, la cui malattia terminale la costringe a trovare colui che potrà prendersi cura della crescita del figlio. Su Netflix dal 21 marzo 2022.
In buone mani, titolo italiano tradotto dall’originale Sen Yasamaya Bak, entra nella top 10 dei più visti su Netflix a pochi giorni dalla sua uscita ufficiale datata 21 marzo 2022. L’accoglienza degli abbonati premia un racconto genuino dai sentimenti familiari, per tematica respingente a ipocondriaci e agli inquieti per natura, visto che malattia e morte sorreggono a braccetto l’intero soggetto.
In buone mani: malattia e speranza nel film turco di Netflix
A Melisa (Asli Enver), madre single del quasi seienne Can (Mert Ege Ak) e anima artistica dalla spiccata creatività, viene diagnosticato un male nella sua fase terminale. Cinque mesi, e non tre come si sente dire in casi simili, rimangono alla giovane cameriera per dire addio per sempre a un figlio adorato, cresciuto nella convinzione di un padre scomparso per i casi infausti della vita, e legato, come lei, a un ideale di famiglia in cui un partner maschile non è prerogativa essenziale alla felicità.
Eppure Melisa di quella soddisfazione arginata a due un po’ inizia a pentirsene. Soprattutto quando l’angosciante prognosi la mette difronte al bivio del futuro inevitabile, quello in cui lei non ci sarà più e Can qualcuno da cui essere allevato ne ha bisogno eccome. Il caso vuole che una mattina madre e figlio conoscano un uomo che ha tutte le caratteristiche prevedibili e urticanti del single vanesio ed ego riferito; scopriranno che Firat (Kaan Urgancioglu), così si chiama l’imprenditore di biciclette dal bel volto da copertina, in realtà ha dentro sentimenti d’accoglienza, e Melisa comincia a immaginarlo come la figura che potrebbe prendersi cura della crescita del piccolo.
(Quali?) lacrime nel lungometraggio di Ketche entrato nella top 10 dei più visti
Quinto lungometraggio di Ketche, regista turco meglio noto per serie tv quali il thriller politico Ankara (2021-), In buone mani inganna l’evitamento del sentimentalismo lacrimevole con un una prima parte che sembra schivare le derive più drammatiche, ponendo la diagnosi della protagonista come fatto compiuto e dunque ‘omaggiare’ il qui ed ora nella spensieratezza che si respira all’interno della speciale relazione fra madre e figlio.
È piuttosto la parte finale quella che cade nelle trappole del dolore confezionato ad arte, incorniciando la rapida regressione di Melisa servendosi di accelerazioni emotive (colonna sonora, passaggi a effetto), le quali invece di asciugare l’emozione ne ricercano facili escamotage con qualche morbosità di troppo. La scelta di onorare il valore della vita attraverso lo specchio imprescindibile della condanna della morte, specialmente quando essa si presenta nell’ingiustizia dell’età precoce, è, di per sé, un’operazione estremamente complessa, a cui è richiesta una profondità di scrittura e un livello d’empatia mai superficiale che in In buone mani sembrano purtroppo vanificate.
In buone mani e l’inevitabile confronto con Nowhere Special
L’operazione sceneggiata da Hakan Bonomo non ha il grado di nitido realismo – pur fortemente commovente nel senso più umano e meno patetico del termine – di film come Nowhere Special di Uberto Pasolini, racconto padre-figlio sulla medesima traiettoria pre-mortem, ma maggiormente intenso perché volutamente non deragliato al pianto come fine ultimo. Senza abusare della portata drammatica delle premesse cliniche, soggetto e oggetto di una narrazione che indagava un affinità definita su piccoli gesti di complicità, la versione inglese di Pasolini incarna quello che la versione turca e al femminile ha solo l’intenzione di condurre, proteggendosi nelle facili retrovie della creazione dell’amore romantico per sgattaiolare dalla crudezza del male. Del corpo e dell’incertezza di quello che sarà.
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