Universi Paralleli: recensione della serie Disney+
La serie sci-fi francese Parallèles esce su Disney+: dalle premesse non troppo originali, Universi Paralleli è una storia che si sviluppa tra misteri e viaggi nel tempo.
Arriva su Disney+, composta da sei episodi, Universi paralleli, la serie fantascientifica made in Francia.
La teoria del multiverso di Everett postula la compresenza di universi che si pongono oltre la nostra concezione di spaziotempo, che per questo motivo vengono denominate dimensioni parallele. La regola intrinsecamente implicita di tale proposizione è che gli elementi propri di ogni dimensione temporale e spaziale non possano e non debbano mai incontrarsi, per non scatenare un paradosso spaziotemporale: un nome che già incute timore metafisico, ma che, a quanto sembrerebbe, nessuno ha mai realizzato e dunque più fantascientifico che fisico.
Ma un paradosso può assumere anche un altro significato, forse più semiotico e linguistico, che scientifico: nella letteratura greca erano brevi narrazioni di eventi straordinari e bizzarri che si configuravano molto spesso come sillogismi.
Ironico, perché tali connotazioni e configurazioni semantiche di “paradosso” possono ritrovarsi nella serie dai toni sci-fi Disney Universi Paralleli, disponibile sulla piattaforma streaming per un totale di 6 episodi. Una coincidenza forse troppo strana per essere considerata tale, ma che vuole imporsi come una nuova produzione francese – prodotta e ideata da Quoc Dang Tran – sulla falsariga simbolica di esempi filmici e seriali già consolidati, dagli anni ’80 a oggi.
Universi Paralleli: un confronto necessario
Il confronto con Stranger Things sembra inevitabile e imprescindibile: dalla struttura narrativa alla compresenza di quattro ragazzini, la madre di uno di questi e un agente, fino all’esplicitazione di un mistero che si dipana tra due versioni speculari dello stesso mondo. Le somiglianze sono notevoli, anche se nel fare una ricognizione analitica di questo prodotto seriale è giusto e doveroso nei suoi confronti non focalizzarsi – perlomeno esclusivamente – sul rapporto di scambi simbolici con la più celebre serie Netflix.
Universi Paralleli si mantiene solidamente grazie ad una composizione di base che si fonda sul dinamismo intelligibile tra estetica territoriale (la Francia) e consolidamento diegetico di quel cinema per ragazzi degli anni ’80, di cui fanno parte I goonies, Stand by me, E.T., solo per citare gli esempi più celebri, fino al retrospettivo Stranger Things, già citato.
Quattro ragazzini, Sam, Victor, Bilal e Romane, sono vittime di uno sconvolgimento spaziotemporale che li trasporta in linee temporali e spaziali differenti e che cercano in tutti i modi di riparare allo squarcio dimensionale che li ha divisi, per tornare alla loro vita precedente.
Universi paralleli: un’avventura psicologica tra alti e bassi
Tale connotazione per certi versi citazionista esula dal volersi scardinare completamente da questi celebri esempi filmici, portando inesorabilmente a quel confronto che si è cercato di rinnegare. La narrazione si proietta su una speculari ormai fin troppo affrontata in questo genere, che viene a configurarsi come un mistery adolescenziale a tratti psicologicamente referenziale. Il dramma per la scomparsa dei protagonisti, che si configura come un rincorrersi tra epoche e universi paralleli, per l’appunto, muta quasi immediatamente in una storia a senso unico che investe con drammatica centralità il più piccolo del gruppo, Victor, creando una sottotrama intrinsecamente convergente con la struttura diegetica principale, che cerca di mostrare allo spettatore le ripercussioni, seppur in chiave metafisica, della solitudine adolescenziale e del confronto generazionale. Questo lato psicologico della narrazione si dipana per tutta la serie, ma esplode in tutta la sua potenza drammatica nell’ultima parte, rendendo così difficoltose le prospettive di risanamento dello status quo iniziale. Ma il modo in cui tali perturbazioni interiori del personaggio di Victor sono state affrontate e risolte in ultima analisi, sembrano veramente influenti sul lato della messa in scena della serie, risultando troppo frettolose e guidate da un deus ex machina rappresentato da Sofia, la madre di Bilal. Questa, attraverso dei segnali intradiegetici che fungono solamente da propulsore narrativo per affrettare la risoluzione finale, riesce a deviare completamente il terzo atto della sceneggiatura verso un good ending estremamente forzato, che risulta macchinoso e farraginoso, privando lo spettatore di quel cliffhanger e di quel brivido di sospensione dell’incredulità proprio di una narrazione di tale portata. Un meccanismo non riuscito, che annulla completamente la quarta parete, portando immediatamente a capire la presenza di un’istanza narrante e pensante che ha già predisposto tale espediente per risolvere la vicenda in 6 episodi.
Universi paralleli è la prova che le buone intenzioni non bastano
La connotazione della messa in scena e del montaggio riesce a rendere abbastanza convincente la narrazione, supportandola in modo da configurare una struttura diegetica abbastanza lineare e piacevole, fondata su piccoli colpi di scena alla fine di ogni episodio in grado di adescare lo spettatore in un vortice di disvelamento circolare. Ma, alla fine, purtroppo bisogna ammettere che le intenzioni non sempre bastano per dare vita ad una serie estremamente efficace.