Luca Bigazzi sul suo lavoro: “Non ha senso se non è visto al cinema” [Intervista]
Abbiamo intervistato Luca Bigazzi, direttore della fotografia premiato con sette David di Donatello, fra cui quello per La grande bellezza.
In occasione del Ca’ Foscari Short Film Festival 2022, ci siamo seduti a una tavola rotonda con Luca Bigazzi, direttore della fotografia che nella sua lunga carriera ha collezionato collaborazioni con registi quali Paolo Sorrentino, Paolo Virzì e Abbas Kiarostami (sua è la fotografia de La grande bellezza, film di Sorrentino premiato agli Oscar nel 2014). Con lui abbiamo avuto modo di chiacchierare del suo rapporto con i registi, di come non si definisca un artista e del carattere politico presente in ogni opera, oltre che dell’importanza dell’esperienza collettiva che solo la sala cinematografica sa regalare.
Ha lavorato negli anni con tanti registi affermati, ma ancora oggi non disdegna mai collaborazioni con registi esordienti.
In realtà li preferisco.
Solo quest’anno infatti è legato a due opere prime: Amusia di Marescotti Ruspoli e Felicità di Micaela Ramazzotti. Cosa la affascina delle opere prime e cambia il suo rapporto con i registi meno navigati?
Francamente non vedo differenza. I rapporti con i registi sono dei rapporti molto vari. Ci sono dei registi che ti dicono: “Mettiamo un 25mm, mettiamo la macchina lì”, e va benissimo, non c’è problema. Altri registi non si occupano di quello, ma non per questo sono meno registi. E nemmeno quei i primi sono più registi di quegli altri. I registi sono creatori del film indipendentemente dalle loro conoscenze tecniche, pratiche e concrete della loro esperienza. Sono i coordinatori totali del film stesso, che spesso hanno scritto, a volte interpretano e comunque dirigono. Il rapporto con gli attori è il rapporto fondamentale. Francamente se un regista mi dice dove vuole la macchina, lo faccio volentieri e collaboriamo su quello, nel correggere magari delle cose. E se non lo fanno, lo faccio io, ma non per questo mi sento il regista del film. Il problema interessante in questi ultimi tempi è esattamente questo, perché quando mettevi le luci in qualche modo davi al regista la possibilità totale di girare a 360 gradi, nel senso che qualunque richiesta del regista veniva assolta dal fatto che tu comunque mettevi delle luci e questa cosa era possibile. Non mettendole più, in qualche modo dai al regista infinite possibilità in più, nel senso che può usare più macchine, può fare totali e primi piani, ecc., però contemporaneamente si crea un rapporto più stretto perché il regista deve sentire dove conviene mettere gli attori e la macchina, visto che le luci non ci sono. Quindi è un rapporto di scambio più interessante oggi, perché io ti do la possibilità di girare totali e primi piani a 360 gradi e tu ascolta il posizionamento della macchina e degli attori in funzione di una qualità estetica che interessa me e te. È un rapporto ancora più stretto adesso.
Dopo una carriera tanto lunga, quando pensa magari alla composizione o ai colori di un’inquadratura, è qualcosa che ormai fa in modo istintivo oppure le capita ancora di sorprendersi, magari di accorgersi di aver dato qualcosa per scontato e provare quindi altre strade?
Io non mi permetto di intervenire sul colori, nel senso che lo scenografo e il costumista lavorano sul colore. Io lavoro sulle luci, su quelle che tolgo soprattutto. E poi ho a che fare con degli ambienti molto diversi, con i muri chiari e scuri, a volte con delle tele di un certo tipo, e lavoro anche su quello, però non faccio l’artista. Questa idea del direttore della fotografia come dell’artista sul set è una cosa insopportabile, è un fraintendimento inaccettabile, di origini conosciute e che io ripudio totalmente. Io non sono un artista, semplicemente sono uno che cerca di essere il più veloce possibile e di ottenere un risultato formale adeguato alle richieste del regista. Io non sono artista per niente.
Preferisce la parola artigiano?
Ma non saprei neanche dire. Già la parola artigiano prevede la parola arte. Io non sono per niente artista. Io poi lavoro moltissimo sulle inquadrature, sulla scelta delle ottiche, sull’altezza della macchina, sui movimenti di macchina. Lavoro moltissimo, molto di più che sul set, in fase di stampa sulla color correction, dove si fanno delle cose che altrimenti sarebbero impossibili da fare sul set o comunque sarebbero molto lente e molto ingombranti da fare sul set. Quindi le mie conoscenze non sono minimamente artistiche, sono conoscenze pratiche di praticità e velocità. L’unico vero complimento che un regista mi può fare è quando mi dice: “Come sei veloce”. Quello è il vero complimento, non: “Che belle immagini”, di quello non mi frega niente, basta che io sia veloce.
Leggi anche: Luca Bigazzi protagonista di una masterclass al Ca’ Foscari Short Film Festival 2022 [VIDEO]
È sempre stato molto coinvolto politicamente, soprattutto da giovane. Quale pensa sia il rapporto fra cinema e politica?
Dire che faccio politica è un po’ esagerato. Cerco di avere un atteggiamento politico nel modo di fare questo lavoro e quindi cerco di rispettare la realtà, di raccontarla sociologicamente e non solo, appunto, artisticamente, che è una parola che non conosco bene. Quindi cerco di essere corretto rispetto alla rappresentazione della realtà, nel senso che se devo fare delle luci brutte, accetto di fare delle luci brutte, se queste hanno un senso. Ci sono situazioni, anche storiograficamente, che è necessario conoscere. La luce degli anni ’50, degli anni ’60, ’70, ’80 e ’90 è diversa a decadi, e questa cosa va conosciuta, capita e rispettata. Faccio un esempio concreto, perché altrimenti diventa tutto astratto. Mi è capitato di fare un film su Berlusconi [Loro di Paolo Sorrentino, ndr], che è un personaggio che io detesto. Allora non posso pensare di fare una bella luce. Se racconto una casa di Berlusconi, penso che farò una luce volgare e questa luce volgare è deprimente e deterrente per la qualità visiva del film, ma non mi interessa. Penso che vada fatta così.
Esistono quindi film che non siano in qualche modo politici?
No. Magari lo sono sottilmente, nel senso che non è che tutti i film parlano di politica, però il tipo di rappresentazione che tu fai del film che stai facendo è una questione politica.
Forse ogni atto che compiamo in realtà è politico?
Lo è, anche in questi tempi un po’ confusi. Penso che tutti noi nella nostra vita abbiamo un atteggiamento politico rispetto a quello che facciamo, anche semplicemente andando al bar e chiedendo un caffè. C’è un atteggiamento politico, un grado di solidarietà o di distanza che non è solo simpatia o antipatia. È una questione politica. Non vorrei sembrare presuntuoso.
Riguardo alle serie TV, dopo aver fatto The Young Pope con Sorrentino ha detto che non ne avrebbe rifatta un’altra, perché era stata un’esperienza massacrante. Poi però ha fatto con lui The New Pope.
E ora ne faccio un’altra.
Quindi ha cambiato idea?
No, però poi ti senti affezionato ai registi, quindi è difficile dire no. Ci sono dei rapporti anche di amicizia. Poi alla fine dici: “Ormai fanno tutti le serie TV”. È una iattura catastrofica. Io non ho la televisione, non le guardo, non le voglio vedere. Poi giri per ventidue settimane invece di dieci, otto, sei e quindi la vita è devastata. Io penso che le serie TV si potrebbero benissimo vedere al cinema. Basti pensare a Heimat [serie di film realizzata dal tedesco Edgar Reitz, che racconta vicende familiari sullo sfondo della Germania da metà XIX secolo fino al 2000, ndr], che era una serie TV, l’abbiamo vista tutti al cinema e ci è piaciuta perché la vedevamo al cinema. Quindi penso che si potrebbero vedere al cinema. Poi se si perde la centralità della sala cinematografica, francamente io ho 63 anni e se non esisteranno più i cinema sono contento anche di smetterla, perché francamente è un lavoro che non ha più senso se non è visto collettivamente in un cinema.