Kami No Virusu: recensione del cortometraggio di Luciano Attinà

Luciano Attinà unisce tante forme narrative per parlare del presente pandemico e lo fa in modo unico, scomodo e diretto. Il suo Kami No Virusu colpisce nel segno!

Prima di iniziare a parlare del cortometraggio Kami No Virusu, nuova creatura di Luciano Attinà, prodotto da Massimo Bezzati (attivo nell’horror underground e weird indie, ha all’attivo diverse produzioni come Night of Doom di Davide Pesca) e da Cieli Oscuri Autoproduzioni con Francesco Vallelonga e Darya Idili protagonisti, è necessaria una premessa. Gli anni di pandemia che – si spera – abbiamo lasciato definitivamente alle spalle ci hanno posto un sacco di quesiti e di problemi di ordine etico, legale, economico, politico e via dicendo. Il cinema e la serialità televisiva più mainstream non hanno ancora trovato il modo di affrontare queste questioni. Come si suol dire, le cicatrici sono fresche, non c’è abbastanza distanza rispetto ai tragici eventi occorsi negli ultimi tre anni, tanto che la capacità di lettura critica sembra – almeno in ambito mainstream – ancora offuscata. Allora bisogna guardare altrove per ottenere il genere di risposte che permetterebbero anche di scendere a patti con quanto accaduto: lo sappiamo, il cinema (e, in generale, tutte le forme espressive artistiche) è uno strumento utile a tradurre aspetti della vita che possono altrimenti risultare poco chiari. È una sorta di psicoterapia creativa

Tra mainstream e underground: la posizione di Kami No Virusu

Traditi dal mainstream, si diceva, bisogna cercare appiglio altrove e precisamente in quello che mainstream non è, cioè l’underground, il mondo del cinema indipendente il quale per svariati motivi mostra maggiore coraggio e una capacità critica e di lettura del presente più penetrativa. Tra i videomaker indipendenti deve essere annoverato anche Luciano Attinà che ha recentemente realizzato (in qualità di regista, sceneggiatore ed editor) il suo nuovo cortometraggio, Kami No Virusu, che affronta in maniera piuttosto decisa, quasi di petto, proprio una delle questioni che la pandemia ci ha posto. Stiamo parlando degli aspetti economici che ruotano (e hanno ruotato) attorno al COVID-19 e delle misure messe in campo per frenarne la diffusione.

Alcune risposte ai quesiti che la pandemia pone

Non si tratta di essere pro- oppure no-vax, pro- oppure no-green pass. Ad Attinà non interessa addentrarsi in questi discorsi scivolosi perché oltremodo polarizzanti. Piuttosto, come ci fa sapere il regista stesso, “il tema è quello di una distopia, dove la salute della popolazione è legata non all’idea di benessere comune ma al profitto dei soggetti economici privati, che si sostituiscono allo Stato. Non si mette in discussione la necessità di un vaccino durante una pandemia, quanto gli interessi di coloro i quali ne dovrebbero garantire l’efficacia e una diffusione equa”. Protagonista è infatti una multinazionale, la Stoker, che in un futuro in cui le vaccinazioni sono state privatizzate si offre di garantire la copertura vaccinale alle fasce meno abbienti della popolazione in cambio del monopolio sulle forniture mediche pubbliche.

La Stoker ha il volto espressivo di Francesco Vallelonga, mentre il resto del cast proviene dalla scena punk/metal italiana. E la scelta potrebbe non essere casuale: non si tratta forse di persone spesso emarginate dal mondo “bigotto” per come si vestono o per come decidono di truccarsi? Al centro di Kami No Virusu ci sono le fasce meno abbienti della popolazione, usate come carne su cui i soggetti economici più forti e predatori possono fare i propri esperimenti. Sono degli emarginati – anche letteralmente, dal momento che vivono nelle periferie -, quasi dei reietti pericolosi secondo la società benpensante. Proprio come lo sono sempre stati anche gli appartenenti alla cultura punk. In un cortocircuito ironico – che rende la critica mossa da Attinà ancora più pungente – le persone che la società ha sempre bollato come pericolose alla fine lo diventano davvero per gli effetti avversi del vaccino e si rifanno in maniera per nulla metaforica proprio contro chi è stato responsabile della loro marginalità.

Kami No Virusu, un pot-pourri grottesco e surreale

L’aspetto più incisivo di Kami No Virusu è la sua frammentarietà. Luciano Attinà scompone e ricompone in – usiamo una definizione tutt’altro che denigratoria – un pot-pourri grottesco e surreale tanti generi narrativi, dal cyberpunk giapponese (influenza evidente fin dal titolo del cortometraggio), al cinema di genere, dal video musicale all’horror. Un contenuto così forte e critico nei confronti di una certa realtà, anche e soprattutto politica, non può che essere accompagnato e veicolato da una forma altrettanto forte, quasi repulsiva a cui tutto il comparto tecnico concorre: dalla fotografia un po’ sporca di Salvatore Cavalli al make-up artigianale di Cristina Oddo, per arrivare alle scelte musicali quasi distopiche e certamente violente di cui è responsabile Mark Blessed, autore di una colonna sonora che pesca dalla realtà industrial, ben amalgamata alle scelte musicali del regista, che invece ci portano verso il punk/metal (Crisis Benoit, Egestas, Intothebaobab), mentre l’audio è di Giovanni Frezza di artEsound (laboratorio di Bologna che si è occupato di vari corti e lungometraggi prodotti da Articulture, Mammut film e altri). In questo Attinà ha fatto sicuramente centro! Ci aspettiamo che continui su questa strada – saper parlare in maniera diretta e, quando serve, scomoda è un dono raro – e che il cinema di più ampio respiro sappia incamminarsi lungo lo stesso sentiero.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 2.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 2.5

2.8