Il paradiso del pavone: recensione del film con Alba Rohrwacher

Una famiglia racchiusa nelle sue molteplici problematiche e un pavone che spicca il volo nel nulla: Il paradiso del pavone di Laura Bispuri è una storia ordinaria sul senso di comunità.

Con Il Paradiso del pavone, in uscita nelle sale italiane il 16 giugno e presentato alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Laura Bispuri, al suo terzo lungometraggio, vuole costruire una famiglia difettosa, tipica nei suoi gesti, nei suoi vizi e nei suoi problemi, contraddistinta da un unico fregio simbolico: un pavone. Distribuito al cinema da Nexo Digital, tra gli interpreti Dominique Sanda, Alba Rohrwacher, Maya Sansa, Carlo Cerciello che tentano di rappresentare una narrazione imperniata sul vincolo eccessivamente soffocante della famiglia come sovrastruttura sociale, in grado di imporre leggi non scritte di buona condotta e di quieto vivere, nascondendo però le necessità personali dei suoi componenti.

Tuttavia la libertà non si costruisce: o ci nasci o la ottieni con tutte le forze a disposizione. Che sia con un salto nel vuoto o con meditata pacatezza, il vincolo terreno deve essere infranto per concedersi quell’anelito briciolo di autonomia che l’uomo brama dalla sua nascita.

Il paradiso del pavone: quando il cinema non riesce a sondare i personaggi

Il paradiso del pavone Cinematographe.it

La regia passiva, la stasi del vincolo domestico e la pacatezza eccessiva delle dinamiche familiari portano ad un’avvicendarsi di aspettative che non si realizzano fattualmente nel testo audiovisivo, promettendo e non mantenendo delle premesse già flebili sul piano diegetico.

I personaggi, e di riflesso le loro incongruenze psicologiche, non vengono delineati nettamente, solo abbozzati in un patinato gioco di legami che si possono spezzare in ogni momento. 
La visività pervasiva della casa sul mare in cui si scoprono i segreti taciuti per anni di tuta la famiglia si carica di una valenza voyeuristica nel momento in cui la macchina da presa compie il suo peregrinare nello scartamento ottico di tutti i componenti, che si muovono nervosamente tra le stanze della casa. Questi cercano di celare la propria natura attraverso una maschera sociale che però si mostra palesemente come artefatta, composta da tic e gesti nervosi che tentano, almeno apparentemente, di mostrare come assurda e psicotica la propria reale caratterizzazione e storia personale. 

Il pavone come simbolo di una libertà agognata

Il paradiso del pavone Cinematographe.it

La tensione costante di cui è imperniata l’intera pellicola si traduce visivamente in una messa in scena statica, contraddistinta da un’immobilità eccessivamente bilanciata tra campi e controcampi e primi piani, che tentano di scrutare dietro la maschera dei personaggi, ma che non riescono in definitiva ad esplicitare i turbamenti dell’animo di nessuno. La recitazione estremamente composta e quasi inconsistente di tutti gli attori in scena manifesta ancora di più la natura aleatoria di questo film, che sembra costantemente essere un sogno impalpabile di una famiglia tipo che poi non si mostra neanche così tanto problematica. Quello che dovrebbe essere un fattore scatenante di risvolti drammatici, ovvero la scoperta dell’omosessualità della madre Nena da parte dei figli non è per nulla così incisiva, perché naturale e manifesta al marito da tantissimi anni. 

L’unico che riesce a svincolarsi emblematicamente dal giogo sociale e artefattuale della famiglia sembra essere il pavone, che si trasforma in figura martire nel momento in cui diventa il fattore scatenante dei malumori repressi dei personaggi. L’animale domestico di Vito e Adelina trova il coraggio di volare anche se non è in grado dal balcone della casa, seguendo simbolicamente una candida colomba che rappresenta incontrovertibilmente la libertà. Solo Alma, la piccola bambina-angelo sembra assumere i connotati del pavone e farsi carico di tutto il dolore represso dei suoi parenti: nel momento in cui chiede scusa per la sorte del pavone, quando cerca di buttarsi anche lei dal balcone, oppure quando ripete le frasi impudiche dello zio Manfredi (Fabrizio Ferracane). La colpa dell’intera famiglia si carica su di lei, trasformandola inconsapevolmente in una martire metaforica. 

Il Paradiso del pavone è un film su una famiglia degenerata che vuole porsi come modello – e monito – della società, discostandosi dalla rappresentazione della perfezione e visione aurea propria del cinema classico. Ma attraverso una pervasività non così tanto approfondita del mezzo cinematografico, non si riesce a comprendere fino in fondo come questa voglia essere una rappresentazione patologica della famiglia italiana. 

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 3

2.6