Night Nursery: recensione del film
Il documentario esplora una singolare rete solidale femminile e le aspettative di genere in Burkina Faso.
Cosa vuol dire essere donna in Africa, essere una donna libera in Africa? Ogni possibile risposta si arena al concetto di sottomissione. Fra afflizioni materiali, accettazione della realtà, solidarietà femminile e qualche spicciola e liberatoria concessione, il lungometraggio Night Nursery, diretto da Moumouni Sanou, racconta una storia ambientata in Burkina Faso – Stato indipendente dell’Africa occidentale privo di sbocchi sul mare – che intreccia i destini di diverse donne, che a causa di povertà, sfruttamento, abusi e delusioni, si ritrovano a vivere da prostitute sostenendosi reciprocamente, e a condividere spazi e quotidianità. Il lungometraggio di Sanou, presentato nella prestigiosa sezione Forum della Berlinale, è tra i diciotto film in concorso al Sole Luna Film Festival 2022.
Night Nursery: ogni sera in una zona popolare della città di Bobo-Dioulasso, in Burkina Faso, la signora Coda accoglie in casa i figli delle lucciole
In Night Nursery i dialoghi sono ridotti al minimo, la parola è affidata alle immagini e ai suoni della città, mentre le riprese con la camera a mano – che sono pura soggettività – negli interni indugiano sui volti, negli angoli e sugli oggetti poveri. L’attenzione principale è su tre prostitute ( Adam, Odile e Fatim), che vivono in condizioni igienico-sanitarie critiche, in un alloggio di fortuna senza mobili appena fuori città. Il tempo si contrae: le ore diurne sono dedicate alla preparazione dei cibi, alle attività di routine, e a quel che resta, a solidarietà e riflessione; le ore vespertine, fino alle 4 del mattino circa, sono per il lavoro (ci chiediamo se è concesso riposarsi), quando le protagoniste passeggiano per il “Black”, un vivace vicolo nel centro città dove ci sono night club, filmato in uno stile verité, privilegiando strani angoli di ripresa, e con la resa traballante.
Il regista rende il clima leggero e giocoso nei momenti iniziale e finale della narrazione. Ma nella parte centrale torna a riprendere i bambini delle tre donne, che intanto vengono tenuti d’occhio, dietro pagamento, da Mrs. Coda che vive in una casa piccola ma ben illuminata: è la casa per l’infanzia utilizzata dalle prostitute locali del Burkina Faso. I piccoli mangiano, giocano, piangono, dormono per terra. Può capitare anche che nella casa di Coda un bambino venga abbandonato. Infatti nella seconda tranche dell’opera l’arco narrativo è riservato a una giovane donna assente la quale ha lasciato suo figlio promettendo invano che sarebbe tornata. Ma come ha potuto abbandonarlo? “People say I ran away” – la donna si rivolge al pubblico – “but that’s a lie“…
“Fare la vita” è il destino che non si giudica delle donne del Burkina Faso che non si conformizzano
Le donne sono per le donne nel Burkina Faso: il documentario esplora una singolare rete solidale femminile e le aspettative di genere in quest’area, sia nei villaggi che nelle aree urbane, dove sono frequenti i matrimoni combinati e forzati. Ritrovarsi a dover fare le prostitute è il realistico e probabile destino di quelle che non si conformizzano, che non temono più nessuno, e, apparentemente, hanno solo paura di essere giudicate, perché quel che si giudica non si può comprendere. Infatti chiedono prima di tutto di non essere biasimate e si aspettano, più che compassione, comprensione. La messa in scena di Moumouni Sanou genera compassione ma anche simpatia: le donne si acconciano, cantano per i loro bambini mentre si preparano per la sera; i piccoli dal canto loro diventano migliori amici, ridacchiano, a volte si ritrovano in attimi di gioco, e alcuni, anche tardi nella fase di crescita, vengono allattati da una balia allo scuro della professione delle madri. Per concludere che il regista fa bene a dare a tutti, nel finale, una boccata d’ossigeno. In questi termini Moumouni Sanou ci consegna uno spaccato di vita che va ben oltre le idee di giusto e di sbagliato.