Los Dias Que No Estuve: recensione del film di Samuel Rios Y Valles
Presentato al Not Film Festival il film di Samuel Rios Y Valles, un affascinante viaggio dentro il concetto di fuga e rinascita esistenziale
Per chi ama le storie sul senso della vita, sulla speranza che non sia mai veramente finita o su come fare a ricominciare, sul valore dei rapporti umani, Los Dias Que No Estuve, del regista messicano Samuel Rios Y Valles è l’opera perfetta. Presentato in Italia in anteprima alla serata d’apertura del Not Film Festival, a Sant’Arcangelo di Romagna, il film ha una forte identità, coerenza, personalità, un cast molto equilibrato e mai troppo sopra le righe e una storia in grado di affrontare più temi in modo sicuramente interessante.
Samuel Rios Y Valles purtroppo non è più tra noi, è stato assassinato a fine febbraio in un tentativo di rapina, una fine tragica per un regista di grande sensibilità e talento, a cui il Not Film Festival ha voluto dedicare proprio la prima serata, e questo film, il cui messaggio universale è tanto più attuale perché connesso all’incertezza dei tempi moderni.
Un uomo in perenne fuga da tutto al centro di Los Dias Que No Estuve
Per Hector Medellin (Martin Altomaro), protagonista di Los Dias Que No Estuve, la vita è alquanto terrificante. Ormai sulla soglia dei 50 anni, è famoso in Messico come una sorta di clown televisivo, che in show ridicoli e pecorecci, si presta ad ogni sorta di umiliazione per il pubblico. Apparentemente felice, famoso e realizzato, Hector in realtà odia la sua vita, dove trova consolazione nella droga, alcool e in relazioni sbagliate. In passato era legato alla moglie Sofia (Irene Azuela), che ha abbandonato come ha sempre abbandonato ogni responsabilità e problema, lasciandosi alle spalle anche il rapporto con la figlia Gina (Ana Valeria Becerril).
Sofia è gravemente malata di cancro. Il riavvicinamento e la conseguente morte della donna, rendono Hector un naufrago della sua vita, fino a quando un improvviso colpo di scena non gli darà la possibilità di fare ciò che sa fare meglio: fuggire, scomparire, cercare di ricominciare da capo l’ennesimo capitolo di una vita passata correndo via. Ma davvero è ciò che gli serve? Davvero la fuga è la soluzione? E se in realtà stesse scappando solo da se stesso?
Los Dias Que No Estuve e il cinema di Salvatores
Los Dias Que No Estuve è un film esistenziale molto lineare, per certi versi anche ammantato di una certa familiarità per chi magari ha avuto in Gabriele Salvatores un idolo cinematografico. Non un caso che qui tutto o quasi si svolga a Puerto Escondido, dove il regista italiano ambientò uno dei suoi film più belli, ma più in generale, come in Mediterraneo. Come in Mediterraneo anche qui bene o male il tema della fuga è predominante, molto meno mascherato di come fece nel 1991 il film che portò all’Italia un altro Oscar come migliore opera straniera (molto più sfacciato ma non meno potente). Altomaro è sicuramente l’asse portante del film ben distante dall’essere retorico o scontato, che strizza l’occhio al tema della solitudine dei tempi moderni, in particolare a quella di chi ha una meravigliosa giovinezza di rimpianti alle spalle e dopo la mezza età è costretto comunque fare i conti con le proprie scelte ed i propri errori.
In questo film, per forza di cose si fa spazio in modo graduale ma innegabile la negazione dell’ideale del successo, con Hector che da star del piccolo porcile televisivo diventa eremita dinoccolato in ricerca di un senso dentro la propria tragedia umana.
Una metafora della solitudine moderna
In tutto questo, il personaggio di Gina, a cui la Becerril dona una rabbia dolente ma anche un grande cuore, rende Los Dias Que No Estuve molto simile (in senso positivo) a The Wrestler (a proposito, avete letto le ultime su Mickey Rourke?), con il suo tema della paternità monca che si aggiunge parallelo all’insieme. Bellissimo nella fotografia, essenziale ma senza sbavature nella regia, il film di Samuel Rios Y Valles è anche connesso ad una agrodolce malinconia, ad una profonda pietas per i suoi protagonisti. Bellissimo il personaggio di Armando (José Sefami), sorta di filosofo-poeta-ristoratore, che pare sbucato da un romanzo di Hemingway o da una canzone sul passato. Assieme a lui Hector ricaricherà le pile, in attesa di comprendere la grande, suprema verità: la verità, la felicità, sono dentro di noi, non solo in questo o quel posto diverso dalla nostra quotidianità. E non si può scappare per sempre, non ci si può rifugiare per sempre nella avventure di una notte con mogli fedifraghe o turiste annoiate, perché il tempo passa, le stagioni sono diverse e un uomo ha bisogno di sapere che ha lasciato qualcosa di concreto dietro di sé.