Narcosantos: recensione della serie TV coreana Netflix
Un comune imprenditore si trova coinvolto in una importante missione segreta governativa. Obiettivo: catturare un narcoboss coreano che opera in Sud America...
Ormai lo sappiamo: dopo il pluri-oscarizzato Parasite di Bong Joon-ho e dopo la serie tv cult Squid Game, ogni qualvolta viene annunciata una nuova produzione proveniente dalla Corea del Sud vale la pena rizzare le orecchie e prestare attenzione. Ciò che vediamo oggi sui nostri piccoli o grandi schermi è il risultato di un lavoro articolato, diretta conseguenza di quella che in patria chiamano hallyu, ovvero dell’incremento della diffusione globale della cultura di massa coreana verificatasi a partire dagli anni ’90.
Non è più necessario essere originali, l’importante è essere convincenti: Narcosantos – miniserie in 6 episodi, disponibili su Netflix dal 9 settembre – mostra fin dal titolo la sua natura derivativa, e non avrebbe motivo per nasconderla. La parola “narco” esiste da molto tempo ma, negli ultimi anni, grazie soprattutto al successo di Narcos e Narcos: Messico, è diventata sinonimo di due cose: storie più o meno vere sui re della droga e distribuzione su piattaforma online (marchio di garanzia e continuità, per gli amanti del sottogenere).
Narcosantos: dentro il mondo del cartello della droga
Ancora guerra tra bande e ancora narcotraffico, quindi, con l’aggiunta di una anomala componente religiosa. La serie inizia con la storia del protagonista Kang In-gu, uomo d’affari che ha visto suo padre lavorare fino alla morte. In-gu rischia di fare lo stesso, cercando di gestire un bar karaoke e un’autofficina per mantenere la moglie e i due figli. Tutto questo fino a quando il suo migliore amico Eung-soo gli offre un’opportunità di lavoro in Suriname, con il miraggio di un enorme profitto.
Inevitabilmente, le cose non andranno come previsto: In-gu si ritroverà infatti immerso in un sottobosco criminale più grande di lui, alle prese con un’operazione sotto copertura per conto dei servizi segreti. Obiettivo: catturare il pericoloso boss Jeon Yo-hwan (interpretato dalla star Hwang Jung-min, presenza fissa del cinema coreano di qualità), signore della droga che ha preso il controllo dello stato sudamericano. È lui il “narcosanto” del titolo, venerato e temuto dalla criminalità locale come un dio.
Narcosantos: tra tossicodipendenza e religione (su sfondo tropicale)
Operazione perfetta per il binge watching, con puntate della durata di un’ora circa che si chiudono puntualmente con stuzzicanti “ganci” per la visione dell’episodio successivo, Narcosantos procede lungo linee molto standardizzate e familiari. Ci sono scontri ravvicinati, sparatorie, macabri omicidi e tentativi di doppiogiochismo che immancabilmente si rivelano armi a doppio taglio. Ci sono panorami lussureggianti in riva al mare (per quanto il Suriname resti una sorta di sfondo bidimensionale da cartolina), fazioni opposte che si danno la caccia, eccentrici sicari e molta… polvere bianca infiliata in pacchetti trasparenti.
Narcosantos possiede, in modo professionale e appassionante, tutto quello che è lecito attendersi da una serie la cui premessa è quella del traffico di stupefacenti con sfondo tropicale. Tra le righe, per i più attenti, c’è anche però un elemento anomalo, che scardina la prevedibilità del racconto: questo non è uno show che tratta in modo superficiale la religione. La fede è piuttosto parte integrante, nel modo in cui Jeon usa la retorica sacra per ottenere seguaci e giustificare le sue azioni. Probabilmente non è un caso che la serie faccia un esplicito parallelismo tra la devozione e la tossicodipendenza. Gli adepti di Jeon sono veri credenti o sono semplicemente in cerca della loro prossima dose? In fondo, c’è davvero qualche differenza?