Kobe – Una storia italiana: recensione del documentario Prime Video
Il film celebra gli anni italiani di Kobe Bryant attraverso il racconto di chi lo ha conosciuto.
È difficile non restare colpiti da Kobe – Una storia italiana, il documentario realizzato da Prime Video e dedicato al periodo italiano di Kobe Bryant. È difficile rimanere indifferenti per vari motivi. Innanzitutto, perché Kobe – Una storia italiana, uscito su Prime Video il 15 settembre 2022, fa luce su un aspetto quasi sconosciuto della giovinezza di Bryant, e cioè proprio gli anni trascorsi in Italia. Anni in cui si forma dal punto di vista mentale e tecnico, mettendo a punto tutta una serie di fondamentali della pallacanestro che poi applicherà con evidente successo anche in NBA. Ma il documentario diretto da Jesus Garcés Lambert e scritto da Giovanni Filippetto colpisce anche e soprattutto dal punto di vista emotivo.
Kobe – Una storia italiana, una storia commovente
Non serve essere fan del basket, della NBA o dei Los Angeles Lakers per apprezzare questo documentario. Non serve perché, in fin dei conti, Kobe – Una storia italiana di basket parla poco. È sempre presente sullo sfondo di ogni scena, ma al regista interessa fornire un ritratto del Kobe Bryant uomo più che del Kobe Bryant sportivo. Lo fa intrecciando i racconti degli amici e delle amiche che hanno conosciuto e frequentato Bryant mentre muoveva i primi passi nel mondo della pallacanestro, quando non ancora decenne è arrivato in Italia, seguendo il padre Joe.
La mitologia sportiva di Kobe Bryant è ben nota e nessuno degli intervistati può prescindere dal menzionarla. Tuttavia, nel corso del documentario non vengono mai mostrate delle imprese sportive. Non ci sono filmati d’epoca o ricostruzioni, come invece è piuttosto comune in documenti di questo tipo. Vengono piuttosto evocate, quelle imprese, attraverso la voce di chi ha accompagnato Bryant nei suoi anni in Italia (e di chi l’ha conosciuto più tardi e in un contesto diverso, come i campioni italiani della pallacanestro Danilo Gallinari e Marco Belinelli). Anzi, nemmeno attraverso la voce di chi l’ha accompagnato, quanto piuttosto attraverso i loro volti, i loro occhi, i loro sorrisi. La loro commozione. Kobe – Una storia italiana ci mostra l’eredità principale, tra le tante, lasciata da Kobe Bryant: un’eredità di affetti.
Questa eredità di affetti è ben evidente in alcuni dei momenti più emotivamente coinvolgenti del documentario, quelli cioè che si intrecciano alla lettura della lettera d’addio al basket giocato scritta da Kobe Bryant nel 2015 e trasformata in un magnifico cortometraggio – Dear Basketball – premiato agli Oscar tre anni dopo. Gli occhi degli spettatori brillano della stessa commozione che illumina i volti degli amici che leggono questa lettera, vero e proprio testamento spirituale di un uomo in grado di lasciare un segno indelebile nella storia della pallacanestro.
Kobe – Una storia italiana è una favola a dimensione umana
Ciò che si fa più apprezzare di Kobe – Una storia italiana è proprio la sua capacità di intrecciare diversi piani emotivi, diverse voci, diversi racconti, mantenendo saldamente nelle proprie mani le redini della narrazione e ben in mente l’obiettivo del documentario: l’autobiografia non sfocia mai in agiografia, la celebrazione non diventa mai esaltazione o peggio ancora mito. È la favola umana di un campione umano; un campione che non ha mai dimenticato il proprio percorso di crescita, le sofferenze e i sacrifici che gli hanno permesso di diventare chi è diventato; un campione rimasto sempre umile, sempre posato. Kobe Bryant è quel ragazzino di otto, dieci, dodici anni che hanno conosciuto a Reggio Emilia, Rieti e Pistoia. I 5 titoli NBA, i premi MVP, gli ori olimpici non ne hanno mutato la sostanza umana che si è formata negli anni italiani. Kobe – Una storia italiana, sì, ma soprattutto una storia umana. E nulla è in grado di colpire più in profondità, nell’epopea sportiva, dell’umanità di un campione.