Intervista a Marco Spoletini: “Il mio approccio al montaggio è emotivo”

La nostra intervista a Marco Spoletini, che ci racconta del suo lavoro al montaggio e della sua visione del cinema.

Due David di Donatello, tre Nastri D’Argento e altrettanti Ciak D’Oro. Questa è solo una parte del  palmares di Marco Spoletini, montatore tra i più apprezzati e conosciuti del panorama cinematografico nazionale e internazionale. Membro dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences Oscar dal 2019, Spoletini in trent’anni e passa di carriera ha curato il montaggio di oltre cento film, ai quali si vanno ad aggiungere svariati documentari e spot. Lo abbiamo incontrato e intervistato nel corso della quinta edizione del Pop Corn Festival del Corto, in quel di Porto Santo Stefano, laddove è stato impegnato nel ruolo di giurato. Tra una proiezione e l’altra della kermesse toscana abbiamo colto l’occasione per rivolgergli delle domande con le quali abbiamo potuto approfondire tra gli altri il suo approccio al montaggio, scoprire quale sono i punti fermi del suo modus operandi e tornare sullo storico sodalizio con Matteo Garrone.

Marco Spoletini: “Il montaggio non lo puoi controllare, per quanto mi riguarda è un’operazione inconsapevole”

Marco Spoletini cinematographe.it

Con il passare degli anni è cambiato il suo approccio al montaggio?

Cambiato no, arricchito si. Ho affinato il mio modo d’essere, che è basato sostanzialmente su un rapporto di pancia. Quest’ultima risponde a dei segnali che non sono organizzabili e spiegabili. In tal senso ho imparato a riconoscere i segnali e a interpretarli meglio. Il mio approccio al montaggio è emotivo. E quella è una cosa che non cambia, semmai va in parallelo con i mutamente esistenziali.   

Preferisce un montaggio invisibile o più muscolare?

Il montaggio non lo puoi controllare, per quanto mi riguarda è un’operazione inconsapevole. Il contrario significa renderlo un esercizio mentale. Il mio modo di montare è perlopiù invisibile. Poi ci sono stati casi di film ai quali ho lavorato che si prestavano a un montaggio più sincopato e interrotto, con scatti temporali visibili e tagli sull’asse come ad esempio in Velocità massima di Daniele Vicari. Ma quella è una scelta legata principalmente alla storia narrata e allo stile che si decide di dare al film insieme al regista. Il più delle volte però mi capita di lavorare a opere più classiche, che anche se non lo sono al 100% richiedono un montaggio morbido, che non si mostra.

Marco Spoletini: “Leggere la sceneggiatura e conoscere la storia è fondamentale, così da capirne la storia, le dinamiche, i tempi e i presupposti emotivi”

Gomorra - New Edition - Cinematographe.it

Come si avvicina a un film, alla storia e ai suoi personaggi?

Leggere la sceneggiatura e conoscere la storia è fondamentale, così da capirne la storia, le dinamiche, i tempi, i presupposti emotivi e tutto il resto, per poi dimenticarli. Questo per evitare di essere costantemente legato al confronto tra lo script e quello che è stato girato, che a sua volta ha subito dei cambiamenti dati dalle interpretazioni degli attori, da un cambio d’idea del regista o dal suo modo di girare una determinata scena che magari è diverso rispetto a quello che era riportato sulla pagina scritta. In genere leggo la sceneggiatura molto prima così da non esserne influenzato, per poi fare i conti con il materiale che ho, esplorare le possibilità che questo mi offre, senza essere piegato e legato alle volontà di uno script.

Preferisce lavorare passo dopo passo con il regista o coinvolgerlo in una fase più avanzata del montaggio?

Dico sempre che si ha più libertà a lavorare con il regista al proprio fianco piuttosto che da soli. Lavorare e ragionare da soli significa rinunciare sin da subito a uno scambio di opinioni tra le parti coinvolte, che può portare a un ulteriore arricchimento. In questo modo posso, rispetto alla storia, conquistarmi la libertà di esprimere un’opinione, di caldeggiarla e realizzarla. E poterlo fare strada facendo insieme al regista. La libertà, intendo quella decisionale, devo conquistarla passo dopo passo. Portare le proprie idee con forza e sicurezza, ma senza alcun litigio e voglia di prevaricare sull’altro. Ma anche accogliere quelle del regista che possono essere altrettanto buone o migliori delle tue. Molte volte invece mi ritrovo a fare da filtro in tante situazioni come ad esempio tra sceneggiatori, registi e produttori. Per questo è importante collaborare con chi ha diretto il film sin dalle prime fasi, guardare il materiale insieme prima di iniziare a montare per ipotizzare lo stile, ma anche una struttura e delle linee narrative. Capire con quello che abbiamo cosa è possibile fare e non inseguire in maniera ottusa quello che ci si era prefissati all’inizio, ma avere anche il coraggio di abbandonare l’idea originale.

Marco Spoletini: “Il mio è un modo di lavorare di pancia, evitando intellettualismi e didascalismi”

andrea carpenzano cinematographe.it

Con oltre trent’anni di carriera alle spalle e più di cento film per il cinema all’attivo, esiste un filo rosso che percorre le sue scelte?

Forse di fili rossi ce ne sono due: l’autoriale e il cinema di commedia. Due solchi nei quali ho avuto e ho la possibilità di lavorare. In entrambi i casi il mio atteggiamento nei confronti delle opere di turno è lo stesso, a cambiare semmai sono i contenuti, i target, lo stile e gli autori. Da una parte le pellicole di Matteo Garrone, dei fratelli D’Innocenzo o di Alice Rohrwacher, dall’altra quelle di Riccardo Milani o Aldo, Giovanni & Giacomo. Alcuni dicono che il mio modo di montare è riconoscibile. Non lo so se è vero, perché non mi sono ancora fermato a pensare al tipo di caratteristiche che ho. Sicuramente il mio è un modo di lavorare di pancia, evitando intellettualismi e didascalismi anche quando ce ne sono, smussandoli o eliminandoli quando è possibile. Se non ci riesco è un fallimento per me. In generale non sono io a impormi sul materiale, ma mi lascio guidare da esso.

Come si pone nei confronti delle opere prime e dei registi esordienti?

L’opera prima per me è in qualche modo una fonte di arricchimento. Lo è perché mi pone ogni volta in ascolto di persone che le hanno fortemente volute e realizzate. Opere che segnano un passo importante nelle carriere di ciascuno di loro, proprio perché rappresentano la prima vera prova nel lungometraggio. Quando ci lavoro non faccio mai pesare la mia esperienza, piuttosto la metto al servizio del film di turno per superare delle difficoltà come possono essere degli snodi narrativi particolarmente complicati. In generale mi metto sempre in ascolto con curiosità di una visione e di uno sguardo diversi, che magari non conoscevo. Quindi non antepongo mai me stesso a un esordiente. Cerco di essere complice e mai maestro, di collaborare al montaggio del film in uno spirito di piena armonia.

Nella sua carriera si è mai trovato a gestire dei momenti di stallo nel montaggio e in caso affermativo come è riuscito a superarli?

Accadono più spesso di quanto si possa immaginare, anche in film diretti da registi con molta esperienza alle spalle. Capitano frequentemente momenti di smarrimento e di scoramento, ma se conosci nel bene e nel male, compresi i suoi limiti, il materiale che hai a disposizione con calma e senza andare nel panico una soluzione si trova. L’atteggiamento migliore è mettersi lì, pazientemente, costruendo la scena un passo alla volta, senza smania e senza intravedere ancora una fine. Mattoncino dopo mattoncino.   

Marco Spoletini: “II rapporto professionale con Matteo Garrone è un misto di complicità e di continua messa alla prova”

Dimitri Capuani - Cinematographe.it

Il lungo e duraturo sodalizio artistico con Matteo Garrone è stato ed è ancora oggi un punto fermo e importante nella sua carriera. Come lo avete alimentato in tutti questi anni e come si sviluppa il vostro processo creativo?

Il rapporto professionale con Matteo è un misto di complicità e di continua messa alla prova. Lui è un regista che, anche con il suo modo di fare, ti spinge e ti stimola oltre le tue possibilità artistiche. Lui è come un soldato. Terminato di girare il film, vorrebbe iniziare a montarlo già dal giorno dopo. Questo per dire che non è uno che molla, che ha momenti di stanca. Io invece per natura sono più pigro. Ecco allora che la collaborazione con uno come lui mi ha sempre stimolato da un punto di vista fisico e mentale. È in primis un rapporto di stima reciproca e di amicizia, perché anche fuori dall’ambito lavorativo c’è una vicinanza umana e affettiva. Per cui c’è una frequentazione e una conoscenza che va oltre l’aspetto professionale, che non è la stessa che posso avere con tanti altri registi con i quali ho collaborato in tutti questi anni. Questa lunga amicizia che ho con lui però non ha mai inciso o influenzato il nostro lavoro in sala, non lo ha mai prevaricato. Per quanto riguarda invece il processo creativo, l’iter che seguiamo è più o meno sempre lo stesso, che poi è anche quello che lui adotta salvo eccezioni per motivi di location o di VFX (come accaduto ad esempio ne Il racconto dei racconti o Pinocchio) nel corso delle riprese, vale a dire il procedere in ordine cronologico. In tal senso cerchiamo di partire dalla prima scena e non montarle a caso in ordine sparso, in una modalità random come avviene normalmente. Seguire un ordine cronologico, procedere passo dopo passo, ci aiuta invece a costruire il film e a porci delle domande sulla direzione che stanno prendendo la storia e i personaggi, ma anche a entrare maggiormente in sintonia con essi.  Tutto questo dopo avere scoperto ed esplorato tutto il materiale insieme, vedendolo e rivedendolo, selezionandolo e scremandolo via via sino ad avere un blocco più raffinato, per poi arrivare a creare un’ipotetica struttura narrativa.   

Quale o quali sono i film che ha montato che sono andati al di sopra delle sue aspettative?

Ripensando ai due solchi che riguardano la mia carriera direi da una parte Gomorra e dall’altra Tre uomini e una gamba. Nel primo caso, a differenza di noi che eravamo piuttosto convinti del risultato, chi doveva occuparsi della fase produttiva invece non ci credeva, nonostante il grande successo editoriale del romanzo dal quale era tratto e dal quale al contempo il film si distaccava dal punto di vista della struttura e dell’approccio semi-documentaristico. Il nostro era uno sguardo quasi esterno che puntava a comunicare allo spettatore tutto il male che avvolgeva quei luoghi, ma senza un giudizio morale. Insomma, scelte radicali che potevano anche decretare un fallimento del progetto. Mentre per quanto concerne il secondo, costato la bellezza di un miliardo e mezzo delle vecchie lire, i dubbi erano legati al rischio di non riuscire a replicare al cinema il medesimo successo ottenuto dal celebre trio sul piccolo schermo e sul palcoscenico. Poi però i risultati portati a casa da entrambi i film, sia in termini di riconoscimenti che di incassi, hanno detto il contrario, smentendo tutti i pronostici.

Marco Spoletini: “con Le meraviglie mi è sembrato di avere la netta sensazione di avere a che fare quasi con un documentario”

Le meraviglie cinematographe.it

Quale o quali invece l’hanno messa più a dura prova?

I due film di Alice Rohrwacher che ho montato, ossia Corpo celeste e Le meraviglie. Cito questi titoli non con un’accezione negativa, perché sono opere che ho amato e che mi hanno dato moltissime soddisfazioni, ma per le difficoltà che abbiamo incontrato all’inizio nel cercare di capire dove si stava andando e in che modo rendere giustizia alla storie che stavamo raccontando. Due film, questi, le cui trame erano gli ultimi dei fili da tenere insieme, perché si reggevano soprattutto su suggestioni e situazioni più che su plot stratificati. Si tratta in quei casi di progetti che ti mettono in crisi, motivo per cui devi trovare un modo per poterli affrontare. In particolare con Le meraviglie mi è sembrato di avere la netta sensazione di avere a che fare quasi con un documentario, di avere delle vite da raccontare con rispetto e dignità, lasciandone una testimonianza. Una volta che abbiamo trovato la chiave giusta poi è stato più facile abbandonare l’idea di lavorare su una trama forte piena di avvenimenti con delle conseguenze, ma di costruire la narrazione sulle emozioni, gli stati d’animo e il vissuto di persone più che personaggi.”

Oggi e in previsione del futuro quale ritiene sia la vera sfida per un montatore?   

Una sfida potrebbe essere quella di integrare le nuove tecnologie con la parte artistica del mio e del nostro lavoro. La mia paura, che poi è quella di tanti altri colleghi della mia generazione, è quella di diventare obsoleti, di non riuscire più a restare al passo con i tempi a causa del continuo upgrade. Ma per fortuna esiste ancora quella cosa magica chiamata comunicazione, che si ottiene sempre mettendo le inquadrature una dopo l’altra, con un certo ordine e misura. Viva Dio questa cosa esiste e funziona ancora, prevale sull’aspetto tecnico e continua ad essere lo scopo principale di chi fa il mio mestiere.